Uomo che saluta - olio su tela 1996

Uomo che saluta - olio su tela 1996
Esposto nel 1997 (c'era quel coniglio di Piero Golia) - coll. Franco Chirico

Saul Bellow 1997: funzione dell'arte

Io non propongo assolutamente niente. Il mio unico compito è descrivere. I problemi sollevati sono di ordine psicologico, religioso e - pesantemente - politico. Se noi non fossimo un pubblico mediatico governato da politici mediatici, il volume della distrazione forse potrebbe in qualche modo diminuire. Non spetta a scrittori o pittori salvare la civiltà, ed è uno sciocco errore il supporre che essi possano o debbano fare alcunché di diverso da ciò che riesce loro meglio di ogni altra cosa. […] Lo scrittore non può fermare nel cielo il sole della distrazione, né dividere i suoi mari, né colpire la roccia finché ne zampilli acqua. Può però, in determinati casi, interporsi tra i folli distratti e le loro distrazioni, e può farlo spalancando un altro mondo davanti ai loro occhi; perché compito dell’arte è la creazione di un nuovo mondo.

domenica 5 ottobre 2014

Augusto Perez e Paolo La Motta | Il maestro e l'allievo

Alla mostra collettiva del '99 venne anche Augusto Perez, uno degli scultori figurativi più interessanti degli ultimi anni. Il maestro era stato insegnante di scultura di Paolo La Motta all'accademia di Belle Arti. Augusto Perez era siciliano, stimatissimo da Guttuso che lo voleva a Roma, dove avrebbe avuto ben altri riscontri. Ma lui aveva scelto Napoli perché era la città più vicina alla sua sensibilità.
Paolo La Motta era stato suo allievo, come già detto, e quando si dice dell'allievo che supera il maestro... ecco: quella metafora non fa al caso nostro. 
Non solo, ma sfortunatamente per Paolo La Motta, l'allievo non è arrivato neanche ad eguagliare il maestro. Neanche molto alla lontana. 
Diciamo che quella distanza iniziale, tra l'allievo e il maestro, è rimasta invariata.
 
L'ultima volta che ho fatto visita alla casa-studio di Paolo La Motta, nell'aprile del 2008, mi si è confermata un'idea che già avevo sulla sua produzione e su di lui. Paolo La Motta brancola nel buio, letteralmente, non sapendo che stile, filone, via, sentiero (per quanto scosceso), o scorciatoia seguire, e a chi accodarsi per giustificare il proprio "essere artista".

Un dusegno di Augusto Perez, grafite su formica

Del grande Augusto Perez ricordo una fenomenale mostra al Palazzo Reale di Napoli nel 1992. Una mostra bella da togliere il fiato. Tutto il resto è patetica decorazione.

venerdì 3 ottobre 2014

I disegni dei maestri - Il primo cinquecento toscano

Scopo primario era, naturalmente, quello di impratichire la mano e l'occhio dell'esecutore stesso e di predisporgli spunti e studi per i dipinti: a questi due fini essenziali, certo, i singoli artisti rispondevano in modi diversi e davano sfumature diverse di interpretazione sia dei modelli, quasi sempre tratti dal vero, sia delle composizioni, sia dei particolari. Cosicché ciascuno insisteva a suo genio più sullo studio del nudo, come Michelangelo, o più su quello del panneggio e sul paesaggio, come Frà Bartolomeo, oppure sulla figura umana in armonioso rapporto con le altre e con lo spazio, come Raffaello; mentre per alcuni il disegno verrà solo in vista delle opere pittoriche, come per Andrea del Sarto, per altri esso sarà invece principale, se non unico, mezzo di indagine sul vero, come fu per Leonardo e come era stato, con maggiore monotonia di temi, per Filippino Lippi.

Angelo annunciante - Fra Bartolomeo

Le occasioni per disegnare erano molteplici: dall'esercitazione puramente scolastica alla ricerca di una particolare figura, già pensata per una precisa composizione pittorica, dalla prova di un movimento o di un taglio compositivo, sempre in vista di un'opera maggiore, allo schizzo di fantasia e quasi di divertito riposo; dall'abbozzo o modello da presentare al committente, al cartone vero e proprio da meticolosamente rifinire per tradurlo in pittura; dall'accostamento ora timido, ora amoroso, ora aggressivo, al modello naturale già predisposto per una qualche composizione, all'appunto rapido da una scena di vita o da un paesaggio, spesso sollecitato dall'occasione immediata e mai più ripetibile. Il disegno poteva anche essere un utile pro-memoria di elementi naturali o figurativi da sfruttare in seguito, quasi una riproduzione fotografica tutta personale, di cui sono singolare esempio i vari taccuini, come quelli architettonico-scenografici del Peruzzi o quelli paesistici di Frà Bartolomeo e del Bachiacca.
I disegni dei maestri - Il primo cinquecento toscano

Angelo annunciante, disegno a sanguigna - Andrea Del Sarto

martedì 23 settembre 2014

Piero Adorno e l'arte greca | La statuaria del Partenone

Con questo non si vuole negare che l'opera d'arte sia il risultato di un lungo e paziente studio. Ma questo studio, questo lavoro, deve restare segreto: è la "preistoria" dell'opera compiuta, nella quale, tutto deve apparire come se fosse stato raggiunto senza sforzo, tutto sembrare spontaneo e indispensabile, ogni parte essere la conseguenza di quella che la precede e la premessa di quella che la segue.
Fatta questa riserva, non mi sembra invece che si possa accettare un'altra critica che è stata rivolta ai combattenti del frontone occidentale: essere cioè tutti sorridenti, vinti e vincitori. Abbiamo infatti già notato come nell'arte greca non interessi l'interpretazione del momento psicologico: anzi il sorriso dei guerrieri feriti a morte accentua l'espressione di superiorità eroica di fronte ai fatti transitori della vita.
Piero Adorno

Guerriero morente

domenica 21 settembre 2014

Enrico Cajati e il camorrista | Paolo La Motta al Castel dell'Ovo

Su Enrico Cajati circolava una storiella che pareva spuria, invece ho verificato essere autentica al 100%.
Non è una storia da manuale, tipo quelle raccontate da Saviano o dal Mattino di Napoli, storie che narrano le gesta da far west della criminalità organizzata napoletana. Soffermandosi unicamente sull'aspetto flokloristico e stucchevole del fenomeno. Dato che anche il far west è un'invenzione cinematografica...

"C'era una volta un pittore che amava vivere i vicoli di Napoli. Un uomo semplice e schietto che era riuscito a farsi apprezzare fin da giovane: a 28 anni fu invitato alla biennale di Venezia.
In quello stesso periodo c'era un camorrista, rampollo, neanche a dirlo, di una famiglia di noti delinquenti. Il camorrista aveva un problema: doveva reinvestire e riciclare i soldi sporchi che tanto facilmente incamerava. Dato che, nella sua volgarità, si riteneva un tipo fine, decise di dedicarsi all'arte contemporanea. Nella sua mente primitiva, aveva infatti notato che gallerista faceva rima con camorrista, e poi che entrambe le parole erano formate da 10 lettere! 
Che mente elevata, non riusciva proprio capacitarsi di poter esprimere cotanto genio.
Di artisti ne trovava a bizzeffe, di ogni nazionalità, formazione e indirizzo artistico, dato che nessuno andava per il sottile sulla provenienza di quei soldi. Pecunia non olet, dicevano gli antichi.
Un giorno il “gallerista” era venuto a conoscenza di quel pittore venuto dal nulla e si era messo in testa di farne un artista della sua scuderia: voleva lanciarlo, come si dice in gergo.

Il pittore accettò, era una persona di una semplicità sconcertante, parlava con tutti. Accettò l'incarico e l'assegno di alcuni milioni, pare 10, che all'epoca erano una vera fortuna: lo stipendio medio era di poche centinaia di migliaia di lire. 
Il pittore, però, cominciò col prendere tempo prima di onorare il patto, il tempo passava e i quadri non erano mai pronti. Non era tanto convinto dell'affare: per lui la provenienza di quei soldi faceva la differenza. Così i quadri non erano mai pronti. 
La pazienza del “gallerista” cominciò a vacillare, non ne poteva più di quelle risposte evasive, era un tipo fine, ma fino a un certo punto. 
Un giorno prese di petto la situazione e arrivò a minacciare il pittore: “Se non mi ridai i soldi ti rompo la testa!”. 
Il pittore tirò fuori l'assegno e glielo porse: non l'aveva neanche incassato!"

Dunque il  pittore è Enrico Cajati, e non è il caso di dire il nome del camorrista: farsi denunciare da una merda simile sarebbe il colmo per me!


Paolo La Motta alla mostra di Enrico Cajati - 2006



sabato 20 settembre 2014

Enrico Cajati alla collettiva di Spazio Arte | Arte e metodo

All'inaugurazione della mostra collettiva nell'ottobre del '99 era presente Enrico Cajati, un pittore assai interessante. Enrico Cajati era stato insegnante di Alessandro Papari e di Francesco Verio all'istituto d'arte. Paolo Mamone Capria e il La Motta già lo conoscevano. 
Ero l'unico che non aveva ancora l'onore di conoscerlo. Ma di Enrico Cajati avevo sentito parlare anni addietro da un architetto e mi ero entusiasmato per il suo "metodo". Lo spiega in questo scritto Salvatore Vitagliano, che lo conosceva bene.  

[...] Nel ’67 la grande svolta. Enrico Cajati giunse alla determinazione di “mettere tutto sullo stesso piano”; appiattendo quindi quella superficie materica che aveva elaborato con tanti anni di sperimentazione e che lo aveva portato alla Biennale di Venezia (a 28 anni) e tornò a quella fonte originaria dove non più il caso ma la costruzione, la costanza, la tecnica, l’osservanza delle regole saranno principi  a cui cercherà di obbedire per tutto il resto della propria vita.
Ho detto “cercherà” perché un uomo del suo istinto e della sua immediatezza gestuale, musicale, dovette castigarsi notevolmente per raggiungere degli apprezzabili risultati, ma in questo castigo di uomo proiettato nel futuro che voleva raggiungere il passato, sta forse la chiave di tutta la sua grandezza. I suoi piccoli quadri informali divennero bozzetti di un lavoro futuro che ha del pazzesco; egli li cominciò a disegnare su fogli lucidi, poi procedeva allo spolvero e una volta riportato il disegno su tela, iniziava il lavoro di campitura, di chiaroscuro, di velature, e quando il risultato finale non lo soddisfaceva, ecco una tinta nuova ricoprire tutto e di nuovo un nuovo inizio e alla fine un nuovo daccapo, e ancora a ricominciare: un buon dipinto va fatto e rifatto sei volte, diceva, e come il Dio creatore egli lavorava sei volte e non meno di sei giorni all’Opera che era tutto il suo mondo. Ma il suo non era un cancellare, bensì un ricoprir di veli, e solo occhi attenti alla pur minima vibrazione di colore potevano catturarne le infinite sequenze di quelle luci nelle tenebre. 

Salvatore Vitagliano - 2002 

Enrico Cajati era una macchietta, spiazzava di continuo gli interlocutori passando, apparentemente, di palo in frasca, sembrava un folletto... in realtà seguiva dei percorsi molto pertinenti riuscendo ad essere istruttivo e divertente allo stesso tempo. 
Aveva il dono della semplicità.


Il pieghevole della mostra con Paolo La Motta e Alessandro Papari


martedì 8 luglio 2014

Alessandro Papari e Paolo La Motta

Alessandro Papari, io e Paolo La Motta

Di gruppo si parlò, in forma ipotetica, nel 1996, nel periodo della mia primissima collettiva al bar di Port'Alba. L'idea di esporre con altre persone partì da Paolo Mamone Capria che frequentavo da qualche tempo. Alessandro Papari aveva esposto nello stesso bar poco dopo di me, ci si incrociava spesso. Era frequente vedere esposizioni di pittura in quel bar: a fine anno accademico gli allievi di Belle Arti esibivano i loro lavori e durante tutto l'anno c'era sempre qualcuno che esponeva, sia professionisti sia dilettanti.
Paolo Mamone era strabiliato dalla tecnica del Papari. Io preferivo di gran lunga i lavori dei miei colleghi dei piani bassi dell'accademia, quelli del corso di Nudo. Loro producevano quadri meno tecnici ma assai più freschi e vibranti. Purtroppo non si poteva organizzare quasi niente con questi ultimi, a parte la mostra di fine anno sollecitata dal prof. Ed era un vero peccato! Così mi abituai all'idea di esporre col Papari, anche se trovavo i suoi lavori troppo virtuosistici e decisamente troppo tradizionali: mi lasciavano perplesso. Era assai distante dalla mia idea di arte.
L'occasione di cominciare ad esporre insieme ad altri si concretizzò solo nel settembre 1998, con l'apertura dell'associazione culturale Spazio Arte in via Costantinopoli, proprio di fronte all'Accademia di Belle Arti. Ero ancora in vacanza dalle parti di Favignana quando mi telefonarono per chiedermi che quadri avrei voluto esporre: adoro queste cose. Paolo Mamone aveva organizzato la mostra collettiva che auspicava da tempo. Era il momento di rientrare a Napoli. Tornai per il giorno dell'inaugurazione. Alla collettiva c'era il Papari che si era tirato dietro lo scultore Paolo La Motta, un personaggio taciturno che conoscevo di vista da almeno otto anni. 
Paolo La Motta e Alessandro Papari in quel periodo facevano coppia fissa, sembravano due inseparabili. Cosicché il gruppo era diventato di quattro elementi. 
Esponendo insieme e frequentandoci, si aprì un certo margine di discussione e confronto. Almeno per chi fra noi prospettava una reale riflessione sul proprio lavoro, dato che ciascuno era molto radicato sulle proprie posizioni e poco incline a vagliarle. 
Anche in galleria però, potevi incontrare persone interessanti con cui avere proficui scambi di opinioni.
Nel mio caso, quel periodo che per certi versi si è prolungato fino al 2007, è stato molto produttivo. Sia sul piano tecnico, sia su quello poetico, avendo compreso le differenze che mi separavano dagli altri componenti del gruppo.

domenica 6 luglio 2014

Gianluca Salvati: mostra personale - Spazio Arte

Gianluca Salvati, mostra personale 1999

È ammirevole, in Gianluca Salvati, la lunga e tenace preparazione con cui egli è giunto a questa sua prima mostra personale. Un percorso di affinamento non strettamente codificato (benché abbia frequentato per qualche anno la Scuola Libera del Nudo all'Accademia di Belle Arti di Napoli), ma sempre teso al miglioramento espressivo, con un peculiare interesse di ricerca per il colore. 

 Dal punto di vista stilistico Salvati ha trovato certamente dei legami con una linea figurativa che ha manifestato il suo rigoglio in Germania specialmente negli anni ottanta, pur connotandosi come fenomeno internazionale, e di cui nel corso di quest'ultimo decennio si sono avute riprese e sviluppi, anche in Italia. 

Tuttavia la velocità deformante del racconto - che è propria di questo filone - non preclude nel nostro giovane pittore, come dicevamo, un'attenzione meditata al colore, qui indagato nelle potenzialità espressive di una gamma ridotta, e l'interesse - non scevro riteniamo, delle suggestioni inglesi di un Peter Howson - a chiudere in maniera plastica e monumentale la figura, sovente presentata in attitudini atletiche, quasi titaneggianti. 

 Un risultato compiuto (ma, naturalmente non conclusivo) si ha dunque in queste opere esposte, in cui l'artista si rivela come temperamento espressionista vigoroso.

Paolo Mamone Capria

venerdì 4 luglio 2014

Alessandro Papari e il disegno a mano libera | Pittura e tecnologia

Col Papari si parlava spesso di utilizzare il proiettore per la realizzazione del disegno su tela. Lui ad un certo punto si è attrezzato (il Papari è un ragazzo volenteroso). A me l'idea piaceva, ma fino ad un certo punto. In realtà sono a favore di un disegno a mano molto libera. Così come sono contrario anche a sistemi di ingrandimento e riproduzione quali la quadrettatura. Non ho mai affrontato grandi superfici con la pittura figurativa, quindi il mio parere è relativo. 

"Eh?!", tecnica mista su carta stampata - Gianluca Salvati 2013

Ma sono contrario all'utilizzo di proiettori per i lavori realizzati su tela fino ad un formato di 2 metri di altezza per un paio di larghezza. Anche il Papari, dopo averne sperimentato i risultati su un quadro, sul proiettore è stato molto chiaro: non ha nulla a che vedere con la caratterizzazione che dà il disegno a mano libera. Il cui valore resta incomparabile, nonostante gli strabilianti progressi della tecnologia attuale. Il disegno rappresenta il non plus ultra della creatività per l'artista plastico, specialmente oggi che le riproduzioni fotografiche sono alla portata di chiunque.


Cow boy, pennarelli su carta - Gianluca Salvati 2013

giovedì 3 luglio 2014

Sei artisti napoletani | Spazio Arte, collettiva ottobre 1999




Spazio Arte: Sei artisti napoletani, ott. 99
   
   Questa mostra raggruppa sei giovani artisti napoletani uniti più che da programmi comuni di lavoro (quantunque per alcuni di essi la vicinanza e il confronto sia un dato di fatto) da un comune amore per il loro mestiere, e dal convincimento, molto generale ma non meno caratterizzante, di questi tempi, che l’arte vera e propria consisterà sempre più nella pittura e nella scultura, ed eminentemente nella Figurazione.
    Con questo essi sanno di essere automaticamente in conflitto con l’élite che ancora controlla per larga parte le mostre e il collezionismo, e dà accesso alle celle frigorifere dei “musei contemporanei”; e inoltre essi sono ben consapevoli di lavorare in una città che con un eufemismo si può definire sorda.
    Ciononostante, questi sei giovani artisti vanno per la loro strada, sorretti dalla loro passione, ma anche dalla percezione di qualcosa nell’aria che sta cambiando...
P. La Motta   
P. Mamone Capria
F. Minieri   
A. Papari   
G. Salvati   
F. Verio   

lunedì 30 giugno 2014

Paolo La Motta e i cani | Ottobre rosso

Tra i quadri che portai alla collettiva dell'ottobre 1999, c'erano i miei cani, Kira e Manta. In realtà solo Manta era il mio cane (e che cane!), mentre Kira era sua madre. Dei due quadri Kira era il mio preferito. Innanzitutto per la posa assai plastica che avevo immortalato con una foto. Inoltre, quel lavoro l'avevo costruito a partire da un quadro astratto che avevo ammirato in una galleria: un dipinto bianco e nero basato su una geometria decisamente euclidea, che nella mia tela era diventato un tappeto. Con questo non intendevo svilire l'astrazione, anzi, quel tappeto rappresentava il cuore del quadro. Lavorando a Kira, infatti, avevo rielaborato il drammatico ricovero di 4 anni prima all'ospedale Cardarelli, poi al Cotugno. Di fatto più un odissea che un ricovero. Non mi rendevo conto quando l'ho dipinto, l'ho capito solo in seguito.
Dunque Kira era un quadro concluso. E funzionava piuttosto bene, direi... Era piaciuto al Papari, a La Motta che mi loderà per anni i cani. Il Mamone ne decantò "i rossi cardinalizi...". In effetti ero stato fortunato, anni prima avevo fatto scorte di tubetti della Pallard, una ditta di colori che era fallita. Anche se non c'era molta scelta, per lo più rosso carmine e verde smeraldo, avevo scoperto che quei tubetti ad olio possedevano una resa formidabile, dunque ne acquistai quasi tutte le rimanenze. A buon rendere: negli anni in cui facevo incetta di quei colori la mia tavolozza era molto diversa, variava dal blu al nero, dal giallo ocra al bianco. I rossi non esistevano quasi nei miei quadri, se non come terre. E non esistevano i verdi. Cosicché avevo fatto un piccolo investimento per il futuro... Ed avevo visto bene. Il 1999 è stato l'anno dei rossi. Successivamente ho sfruttato anche le scorte di verde.
Alla collettiva esponevo i lavori fatti per la personale di aprile, ma a quel punto erano abbastanza chiari per me: sapevo quali funzionavano senza ombra di dubbio e quali avrei fatto bene a cestinare. Quelli buoni funzionano tutt'oggi.

Kira, olio su tela 1999 - Gianluca Salvati


sabato 28 giugno 2014

Il rientro a scuola | Piero Armenti: "Uccidetelo!" - Caracas, gennaio 2005

Quando rientrai a  scuola dopo l’avvelenamento, le vacanze natalizie erano terminate da qualche giorno. Ero debole e bianco come un lenzuolo. Un fantasma mi faceva un baffo. L’idea di riprendere a lavorare non mi allettava: l’insegnamento richiede un costante impegno e io non mi sentivo in forma. Nonostante la debolezza, però, miei alunni si comportarono bene. Era una seconda elementare ma di fatto si mostrarono comprensivi e non approfittarono della situazione. 
Detto ciò, c’era comunque uno strano silenzio nella scuola in quel periodo, come un senso di attonimento generale, e non solo nella mia classe.
La vita fuori scorreva come sempre, in Venezuela, in Italia e nel mondo succedevano cose.
A fine mese, il mitico Chavez rilasciava un’intervista in cui affermava che il socialismo non era morto. L’ho scoperta da poco, spulciando quell’interessantissimo archivio che è la versione digitale del quotidiano fascista de La Voce d’Italia. Archivio che è cominciato nel maggio del 2004, quando Piero Armenti ha cominciato a lavorare presso La Voce d'Italia e si è interrotto quando Piero Armenti è rientrato in Italia nell'autunno del 2008. In quella stessa data sono rientrati, direi con una certa fretta, sia Enrico De Simone che Daniela Corrieri, due romani alla corte della Greco (Anna Grazia, una fuorilegge a Caracas). Ed è piuttosto curioso che Enrico e Daniela siano ritornati in Italia a scuola appena cominciata. Entrambi lavoravano infatti alla scuola italiana Bolivar y Garibaldi di Caracas,
Tornando al gennaio 2005, qualche giorno dopo, ai primi di febbraio, Piero Armenti, apprendista periodista presso il suddetto giornale fascista, licenziava un articolo dal titolo “Uccidetelo!”. 
Non ricordo se l’avesse scritto sul quotidiano fascista per il quale lavorava o su uno dei tanti blog fascisti su cui ha scribacchiato in quel periodo,  poiché da un po’ di tempo quel bell’articolo, tanto esplicativo del personaggio che allora si faceva passare per chavista, è stato spurgato da internet... 
Non ricordo un titolo più stizzito di quello. Piero Armenti, ovviamente, parlava di Chavéz, ovvero di un non meglio identificato esule politico venezuelano che da Miami, Florida, pontificava in questi termini: “...l’unica soluzione per il problema Chavéz è una carabina da...” e  giù a descrivere dettagliatamente il tipo di fucile più idoneo per l’assassinio appena auspicato.
Bisogna dirlo, un articolo dal grande tenore politico, con un vastissimo orizzonte culturale... mi rammarico di non averlo salvato, oggi potrei riproporlo per la gloria del giornalista salernitano.
Di lì a poco moriva assassinato un connazionale a Caracas.


Cow boy, pennarello su carta stampata - Gianluca Salvati 2013


venerdì 27 giugno 2014

Caracas, dicembre 2004: l'avvelenamento | La famiglia di Franco Chirico

Il 27 settembre 2004 cominciai ad insegnare alla scuola italo-venezuelana "Agustin Codazzi" di Caracas.
Dopo un mese di insegnamento, percepii il primo stipendio, pur non avendo alcun contratto di lavoro. L'unico contratto che avevo, in una lingua che non conoscevo ancora, era quello con l'azienda sanitaria privata, la Sanitas. Questo contratto assicurativo in lingua spagnola sembrerebbe un dettaglio, ma, col senno di poi, ho capito che era un aspetto tutt'altro che trascurabile. Dopo Natale, infatti, fui vittima di un avvelenamento che mi ha quasi ammazzato: in quell'occasione non ebbi modo di chiedere soccorso perché la procedura era complicata e io non ero in grado di decifrarla nell'idioma, lo spagnolo, che ancora non conoscevo. Eppure, nelle telefonate fatte prima di partire, avevo messo al corrente la. dott.ssa Greco del fatto che non conoscessi lo spagnolo. Lei mi aveva risposto che era una lingua facile da imparare... Quando ebbi l'avvelenamento il collega con cui condividevo l'appartamento si trovava fuori città, a Merida, dalla sua fidanzata. Mi telefonò il capodanno per farmi gli auguri, e, nonostante l'avessi messo al corrente delle mie condizioni di salute, non si preoccupò di informare nessuno dei colleghi presenti a Caracas. Mi disse che non poteva fare gran ché da laggiù.

Caracas, dicembre 04
Il collega ritornò il 4 gennaio mattina. Lui e la sua fidanzata entrarono in casa silenziosamente. Io ero sveglio ma non parlai, aspettai che si affacciassero alla mia camera. Ricordo ancora la sua espressione nel rivedermi. Sembrò deluso e abbattuto, abbassò la testa e rivolto alla fidanzata disse che chiamava il pronto soccorso della Sanitas.

Quando la dottoressa e il suo assistente mi videro, sembrarono alquanto meravigliati di trovarmi vivo: mi trattarono come se la mia vita fosse appesa ad un filo. Mi prescrissero diversi medicinali e una serie di analisi. 


Prescrizione Sanitas

Il giorno seguente mi alzai e scesi di casa diretto alla clinica per le analisi.  
Il tassista non mi portò in una struttura Sanitas, bensì in un'altra clinica poco distante dal quartiere dove abitavo. Per me andava bene lo stesso, una clinica vale l'altra. (In realtà l'informazione era molto precisa: Clinica Sanitas di Plaza Altamira, era impossibile sbagliarsi, cosicché sono certo che il tassista mi abbia portato di proposito in un'altra clinica).
Tornato l'indomani per ritirare i risultati dei prelievi, fui spettatore di una strana rappresentazione: due infermiere discutevano sommessamente. L'argomento erano le mie analisi. Ad un certo punto capii ciò che dicevano: una disse all'altra che non era compito suo preoccuparsi del contenuto di quegli esami: doveva consegnarmeli e basta. 
Eppure mi davano l'idea di essere entrambe molto comprese rispetto al mio "accidente" e che stessero cercando di comunicarmi qualcosa in più oltre a quello che dicevano. 


Risultati alla mano, telefonai al centralino della Sanitas per parlare con la dottoressa che mi aveva visitato, dato che eravamo rimasti così. La dottoressa mi chiese i livelli di alcune voci delle analisi ed ebbe una reazione emotiva quando glieli comunicai. Mi chiese di ripetere il risultato di un parametro in particolare. Dal tono, di voce sembrava che stesse per piangere. Come se stentasse a credere a ciò che le comunicavo. Poi, di punto in bianco, la linea venne interrotta dalla voce di un uomo, il quale mi diceva che non potevo più parlare con la dottoressa perché era impegnata. Dovevo rivolgermi direttamente ad una struttura Sanitas.

Così feci, nonostante il mio aspetto e l'estrema debolezza. Il collega neanche stavolta si offrì di accompagnarmi ed io gli evitai la molestia di chiederglielo. Alla clinica "La Floresta" di Plaza Altamira (quartiere Chacao), provai a spiegare cosa dovevo fare ma non mi riuscì molto bene. Ad ogni modo mi fermai lì, in una delle sale d'attesa del piano inferiore della struttura, dove si facevano le analisi. Ad un certo punto un'assistente si offrì di mostrare le mie analisi ad un dottore internista. Così mi disse.

Quando ritornò, mi comunicò con un gran sorriso, che avevo avuto un dengue emorragico. Ebbi un certo sollievo a quest'affermazione, non so se perché si capiva che ero fuori pericolo, o perché, date le sue cause, non c'era dolo: il dengue infatti viene trasmesso da una zanzara e a me le zanzare mi adorano. 
Ai primi sintomi, invece, avevo pensato ad un avvelenamento, causato dal prosciutto cotto lasciato in frigo dal collega. Inutile dire che quando ho studiato i sintomi del dengue emorragico, ho riscontrato che non avevano alcuna attinenza con i sintomi da me riscontrati in quei giorni.

 Mentre allora presi per buona quella interpretazione detta per sviarmi, nonostante nei giorni successivi, alcune colleghe mi avessero invitato a sottopormi a una vera visita. Io ero dell'avviso di dimenticare quella vicenda quanto prima e preferii non indagare. Né lo comunicai ai miei familiari per non farli stare in pena.

Dimenticavo di dire che, pur avendo il numero della famiglia di Franco Chirico, che abitava a due passi da me (ma l'ho scoperto solo nel 2008), non mi ha neanche sfiorato il pensiero di telefonarli in quei giorni: sono certo che in tal caso le mie poche chance di sopravvivenza si sarebbero ridotte a zero... 

giovedì 12 giugno 2014

La ragazza di Piero Armenti e il disegno a linea continua | L'artista di Bellas Artes

Tra i miei luoghi preferiti a Caracas, c'era la zona di Bellas Artes, coi suoi musei (gratuiti), mercatini di artigianato e un parco verde abbastanza grande e ben tenuto. Quando cominciai a frequentare la ragazza di Piero Armenti, capitava spesso che ci incontrassimo a Bellas Artes. Un pomeriggio eravamo seduti ai tavolini di un bar nei pressi della fermata di Bellas Artes della metro, quando ci avvicinò una signora che lei conosceva e ci propose un ritratto a linea continua. La ragazza di Piero Armenti disse che andava bene, così la signora, che per me era una ragazza, andò a procurarsi un foglio.

Venne e prese a disegnare con una biro verde, senza staccare la punta dal foglio. 



Disegno a linea continua con la ragazza di Piero Armenti, Caracas 2006

Prima disegnò la mia testa, una montagna, poteva essere il monte Avila, che sovrasta Caracas. Poi disegnò lei in lontananza, i suoi capelli diventavano uccelli e poi mare e  palme. Il paesaggio tropicale con noi due.

C'era inoltre un altro occhio sopra le rocce dell'Avila, che in un primo momento avevo interpretato in chiave cubista, come il mio stesso occhio visto di fronte; invece è l'occhio di qualcuno che si nasconde o guarda da lontano. Ed è un occhio chiaro, ceruleo.

Se dovessi dire a chi appartiene quell'occhio, nella ristretta cerchia di persone che frequentavo a Caracas, credo che sceglierei proprio Piero Armenti.
Ma era questo il messaggio di quel disegno a linea continua?  Vediamo... 

Dal nome latino Petrus, tratto a sua volta dal greco Petros, col significato di pietra (dal termine petra, comune a entrambe le lingue). Il nome greco, dal canto suo, è la traduzione dell'aramaico Kephas, che, tratto dal termine kefa, significa per l'appunto pietra, roccia. È quindi analogo per semantica al prenome Sten.
Questo nome, storicamente, affonda le sue radici nel Cristianesimo e in particolar modo nel culto di San Pietro, ritenuto essere il primo papa dalla Chiesa cattolica. Proprio a lui si lega l'origine del nome Pietro, che, come sostenuto dagli apostoli Matteo e Giovanni, venne così chiamato dallo stesso Gesù Cristo: celebre è il passo del Vangelo di Matteo in cui Gesù dice a Pietro "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa".
A proposito delle varianti del nome, Piero e Piera si sono già formati a partire dal Medioevo (vedi Piero). Le forme Petro e Petra, invece, sono in parte dovute all'influenza del latino ecclesiastico, soprattutto nel Meridione. La forma femminile Pietra può derivare dalla devozione per "Maria Santissima della Pietra", patrona di Chiaravalle Centrale.
 


Sembrerebbe proprio di si: quell'artista di strada mi stava dicendo, tramite quella sorta di rebus a linea continua, che la ragazza che stavo frequentando era un'esca per tenermi sotto controllo.

Quando ebbe terminato, la ragazza di Piero Armenti la pagò, direi piuttosto bene, e fu anche molto gentile con l'artista di strada. Quando la signora andò via, lei mi raccontò la sua storia. Era un'artista di strada in quanto viveva per strada ed era malata: aveva un tumore all'orecchio, quando ci aveva avvicinato aveva parlato di comprare delle medicine. 
Alla fine lei concluse che il disegno dovevo tenerlo io. E così fu. 
Ma non credevo che un disegno potesse essere così importante.
Di lì a un mese, la ragazza di Piero Armenti mi riportò la notizia della morte di quella signora che in realtà era ancora una ragazza. Non credo avesse più di 30 anni.
Poco tempo dopo, "il mago", un suo conoscente, amico di Piero Armenti, fece girare voce che voleva le foto dei suoi disegni, per farne un non meglio precisato "archivio". 
Anche il nostro ritratto a linea continua, era sottinteso. La riproduzione non l'ha mai vista, almeno fino ad oggi...

Anna Grazia Greco e il dopo commissione | Il Collegio dei Docenti e il mega contratto del prof di informatica

Il 31 marzo del 2005 si tenne il Collegio dei Docenti alla scuola italiana Agustin Codazzi di Caracas. Era il primo incontro dopo la visita ufficiale della commissione interministeriale capitanata dal pagliaccio di Stato, Paolo Scartozzoni.
Un collega, uno che credevo mio amico, era andato via e stava per rientrare in Italia, cosicché rimanevo l’unico docente ad aver mosso delle critiche a quella gente che parlava a nome del Ministero degli Affari Esteri. Mi sentivo a disagio, ma non essendo uno che molla facilmente, sarei comunque rimasto lì fino all’ultimo. 
Se avessi avuto altri motivi di lamentela, mi sarei fatto sentire ancora.

Quel giorno però me ne stavo defilato, per quello che si può in un aula dove i banchi sono sistemati a ferro di cavallo. Non avevo voglia di parlare.

Durante la riunione, la Greco (Anna Grazia, la fuorilegge) fece un’osservazione sul professore che era mio coinquilino e insegnava francese ed italiano: “...per il prossimo anno dobbiamo togliere di mezzo qualche ora di francese...”, disse la Greco.
Il prof diede una risposta assai curiosa: “Basta che non togliamo di mezzo il professore di francese...”, sbottò, arrossendo come un peperone. E dato che il collega aveva il naso a forma di peperone, il quadro era completo...


Francisco Goya, acquaforte da I disastri della guerra

Nonostante l’involontario aspetto comico, il prof aveva risposto in maniera assai strana. Il tipo era un pompiere nato, il primo ad allinearsi alle scelte di quella gentaglia del Codazzi: lo vedevo sempre parlottare con qualcuno, così gli dicevo che aveva sbagliato mestiere, anziché insegnare doveva darsi alla politica... Nonostante ciò, tale "lealtà" non gli ha portato bene: le sue posizioni non sono state sufficienti a riconfermarlo come insegnante per il successivo anno scolastico, evidentemente altre erano le richieste ricevute da quella gente.

La Greco non accolse la battuta polemica del collega e continuò con le sue disposizioni.

Ad un certo punto, ci fu l’intervento di una collega, una vecchia cariatide che aveva lavorato per il Consolato Generale di Caracas. Costei lanciò una proposta che riguardava il prof di informatica, il sig. Fabrizio, fidanzato ufficiale della Greco.
Il tipo veniva dall’Italia come noialtri senza contratto, ma vantava un mega contratto, direi una roba spaziale: comprensivo di biglietto aereo pagato ogni mese, perché il sig. Fabrizio si fermava per pochi giorni, poco più di una settimana alla volta. Poi aveva un mega albergo, sempre previsto nel contratto ed amenità di questo genere...

Anche la Greco, d’altronde, prima di prendere casa ha passato un lunghissimo periodo, forse un anno, nel miglior hotel di Caracas il Melià. Tutto a spese del contribuente.

Per la gioia di chi le tasse le paga.

Tornando al Fabrizio, nonostante il trattamento di favore, a mio avviso non era una persona da invidiare. A parte lo stomaco che doveva avere per stare con la Greco, dava l’idea di una persona infelice. Ad ogni modo mi avrebbe fatto piacere sapere che lavorasse anche lui. Così approvai la proposta. Che fu approvata all’unanimità o quasi.
Col risultato che ci toccò fare del lavoro extra. A me sicuramente.
Mentre il tipo della Greco non presentò alcun documento. 
La mummia, colei aveva lanciato la proposta riguardo al tipo della Greco, più o meno un anno dopo, si rivolgerà al giornale fascista La Voce d'Italia, nella persona della signora Marisa Bafile, sua conoscente, per far scrivere questo articolo dal taglio decisamente denigratorio. Specie se valutato dalla prospettiva di chi, senza contratto, non viene pagato per quattro mesi, come scriverà Enrico De Simone, in un trafiletto di risposta (tanto per tenersi buona M). 

mercoledì 11 giugno 2014

# L’articolo - p. II # | Enrico De Simone, Carlo Fermi e Max Mauro - La Voce d'Italia, Caracas: giornale fascista con velleità sinistroidi

Andammo alla pizzeria Nonna bella di Chacaito e ordinammo delle pizze.

Scendendo da via Nivaldo, nei pressi della mia abitazione, incrociammo un tipo semi alcolizzato che nei primi tempi aveva provato a spillarmi dei soldi. Fino al giorno che,  avendomi chiesto di tenergli della refurtiva in casa, lo misi a posto una volta per tutte. Anche se quello era un quartiere residenziale, infatti, confinava con la favela, che in Venezuela si chiama rancho. La qual cosa non mi scandalizzava: mi sono sempre piaciuti i luoghi popolari. Ma quando raccontai ai compaesani la storia di quel tipo, loro si galvanizzarono, fu il tema della serata in pizzeria.

Max Mauro era in Venezuela da poco ed era stato alloggiato dal responsabile del giornale fascista per cui lavorava (La Voce d’Italia) in un albergo mal frequentato, raggiungerlo di sera a piedi voleva dire esporsi a rapina certa, dato che si trovava in una zona della città completamente al buio. Neanche fosse stata la bocca dell’inferno.

Max ci raccontò di alcuni personaggi equivoci che risiedevano nel suo hotel. Carlo Fermi scriveva messaggini a ruota.

L’altro argomento della sera, neanche a dirlo, furono i miei quadri. Le prime osservazioni partirono da Carlo Fermi, il quale quella sera era lì per puro caso: per vedere la casa dove vivevo... A seguire attaccò Enrico De Simone che, anche quella sera, mi pareva il suo fido cagnolino da compagnia.

In sostanza i due compari mettevano in dubbio l’autenticità della mia produzione pittorica. 



Da non credere, quei due vermi, due venduti agli ordini di chissà chi, che davano del veniale a me. Sembrava il colmo dei colmi. Ed erano lì per puro caso. O almeno questa era la loro versione.

Alla fine della pizza e delle chiacchiere, Carlo Fermi tirò le fila della forbita conversazione: dato che io ero forte e non avevo paura, avrei accompagnato Max al suo albergo che non era molto distante dalla piazza. Poi sarei tornato col taxi. 
Lui intanto andava, perché aveva un impegno: era un uomo di mondo, aveva studiato alla Bocconi per fare simili ragionamenti... (pochi anni dopo, Carlo Fermi si installerà a Medellin, capitale mondiale della cocaina, in Colombia).
Non se ne parla”, gli risposi. Provarono inutilmente ad insistere i due compari.

Alla fine si rassegnarono: saremmo andati con Enrico e Pier ad accompagnare Max.

Eravamo nella piazza di Chacaito, stavo scrivendo l’email del Pier sul cellulare, ad un certo punto notai il negretto che guardando verso di noi, saltò giù dal muretto dov’era seduto insieme ad altri. Non ci diedi il giusto peso e quelli presero a seguirci. A un certo punto, poco prima di uscire dalla piazza, parte di quella teppa ci superò, prendendo diverse direzioni.
Neanche il tempo di raccapezzarmi e pensare: “ Ma che storia è questa?...”, che venni colpito alla nuca. Che botta!

L’ultima scena che vidi prima di perdere i sensi fu Enrico De Simone: si girava come uno che già conosca il copione e con la sua nota espressione sulla faccia abbassa la testa, come a dire: “Ben ti sta!”. E molto casualmente a lui nessuno lo toccò.
Quando mi ripresi avevo il braccio del negretto che mi stringeva al collo. Il tipo era più basso di me, ma aveva un avambraccio di tutto rispetto e si teneva ben piantato al suolo. Ebbi la mia brava reazione e provai a scrollarmi da dosso quell’animale. Gli afferrai il braccio con entrambe le mani, tirai in avanti verso il basso e gridai come un animale. Ecco, due animali.

Ero fuori forma, e il negretto non fece il volo che avrebbe dovuto fare, ma dovette muoversi in avanti con passi veloci per non cadere. Aveva le scarpe lucide di pelle con la suola in cuoio che battendo sulle pietre della piazza, produssero uno scalpiccio piuttosto acuto. La scena aveva del comico.
Si fermò di fronte a me a tre metri circa. Ci fronteggiavamo io e il negretto e il tipo fece il gesto di mettere le mani dietro la cintura per prendere il coltello.
A quel punto scappai, senza molta convinzione, mi pareva di andare al rallentatore. In quel momento uno di quei figli di troia mi lanciò una bottiglia di birra che si fracassò sulla coscia in prossimità del mio ginocchio sinistro.
Ritornai nella piazza e mi fermai. Avevo ancora il cellulare nella mano sinistra. E i miei compagni?

Un attimo dopo vidi un tipo ridicolo che correva a slalom. Era Enrico De Simone.

Non si perse d’animo il periodista di destra, quel finto chavista subito prese ad aggredirmi verbalmente: era colpa mia se ci avevano aggredito; camminavo col cellulare in mano. “E guarda lì che ti sei fatto!

Si sentì uno sparo e dopo si vide la teppaglia scappare nella nostra direzione. Ritornammo al ristorante Nonna bella. Enrico chiamò la polizia. Io mi feci dare del ghiaccio per l’ematoma della bottigliata.
La polizia era già lì. Una pattuglia in moto aveva sentito il mio grido. Poi aveva incrociato Pier che gli aveva indicato il luogo dell’aggressione. Avevano sparato in aria per disperderli. Non avevano neanche tentato, che so, di acciuffarne qualcuno.

Prendemmo un taxi per tornare a casa. Passando davanti ad una pensilina degli autobus c’erano dei ragazzi. Appartenenti a quella teppa, ci avrei scommesso. Ero ancora dell’idea che andassero acciuffati ma non lo dissi a Enrico, a che serviva. 
Avevo attraversato quella piazza di Chacaito un'infinità di volte, spesso di notte, spesso da solo e non mi era mai accaduto neanche l'accenno di una rapina. Posso affermarlo con certezza: meglio solo, che male accompagnato...

A casa continuai a tenere il ghiaccio sull’ematoma e mi fumai una sigaretta.

Il giorno dopo, il 30 aprile del 2006, Enrico De Simone mi inviò questo messaggio: Hola guerrero, todo bien? Il grande "amico" Enrico De Simone, che oggi scrive per il giornale on line di un colonnello, Gaetano Quagliariello, del partito piduista.

Quando ci rivedemmo, Pier non ci poteva credere: “Ti hanno aggredito in due e li hai messi fuori gioco...”. Non ricordavo che erano in due, però ripensandoci mi tornò in mente, il secondo l’avevo colpito col dorso della mano sinistra al volto. Era stata la mia reazione prima di perdere i sensi.

Più di una persona mi dirà in seguito che ho fatto male a reagire, che così rischiavo la vita e cose del genere... Sono certo che avrei rischiato di più se non avessi reagito. Erano mal intenzionati dal  primo momento, almeno nei miei confronti. A Enrico, infatti, non lo avevano neanche sfiorato. Il Pier era riuscito a divincolarsi  Max si era ritrovato a terra mentre quelli gli frugavano nelle tasche.

Su una cosa concordammo e fu abbastanza scioccante: erano tutti ben vestiti. Una élite di marioli, del tipo che lavorano su commissione. Non a caso.

Avevo da poco denunciato all’autorità competente quegli infami delinquenti in grisaglia dell’associazione Agustin Codazzi, la scuola presso cui avevo lavorato a Caracas. E meno male, perché ho potuto mettere un punto fermo nei confronti di quella gente, e del regime che li protegge e che un domani, grazie ad apparati deviati dello Stato, avrebbe potuto avallare altre menzogne, più o meno come hanno provato a fare senza successo quegli infami della cricca Codazzi al Tribunale di Caracas.

gianluca salvati

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Gianluca Salvati - Lotta di cani

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