Uomo che saluta - olio su tela 1996

Uomo che saluta - olio su tela 1996
Esposto nel 1997 (c'era quel coniglio di Piero Golia) - coll. Franco Chirico

Saul Bellow 1997: funzione dell'arte

Io non propongo assolutamente niente. Il mio unico compito è descrivere. I problemi sollevati sono di ordine psicologico, religioso e - pesantemente - politico. Se noi non fossimo un pubblico mediatico governato da politici mediatici, il volume della distrazione forse potrebbe in qualche modo diminuire. Non spetta a scrittori o pittori salvare la civiltà, ed è uno sciocco errore il supporre che essi possano o debbano fare alcunché di diverso da ciò che riesce loro meglio di ogni altra cosa. […] Lo scrittore non può fermare nel cielo il sole della distrazione, né dividere i suoi mari, né colpire la roccia finché ne zampilli acqua. Può però, in determinati casi, interporsi tra i folli distratti e le loro distrazioni, e può farlo spalancando un altro mondo davanti ai loro occhi; perché compito dell’arte è la creazione di un nuovo mondo.
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sabato 23 febbraio 2013

Norberto Bobbio, di Giovanni Spadolini: Gli uomini che fecero l'Italia


GIOVANNI SPADOLINI ebbe in mente sin da quando era adolescente un libro “leggibile e non esclusivamente accademico” che servisse da “guida dei protagonisti del riscatto nazionale”. Lo compose a poco a poco lungo gli anni, aggiungendo a ogni nuova edizione altri ritratti. I primi erano già apparsi nel volume Autunno del Risorgimento (1971); i successivi, più numerosi, furono aggiunti nella prima edizione di questo libro, in due volumi, il primo dedicato all'Ottocento, il secondo al Novecento, usciti nel 1972. L'ultima edizione in un solo volume, sottotitolata La storia di una nazione attraverso i ritratti di 112 protagonisti, e indicata come definitiva, è apparsa nella primavera del 1993. Un'opera, come lo stesso Spadolini l'ha definita, “per tanti aspetti conclusiva delle mie ultraquarantennali ricerche sull'idea dell'Italia e sulla storia d'Italia”.
“Definitiva” l'ultima edizione, in quanto la galleria dei ritratti era da considerarsi compiuta, ma nello stesso tempo anche opera “aperta”, anzi “infinita”, perché in una concezione liberale della storia, ispirata alla “religione della libertà e del dubbio”, nessuna opera umana è mai compiuta. Soprattutto per chi è chiamato a riflettere sulla storia d'Italia, di cui nell'ultimo suo discorso pronunziato in Senato, poco prima della morte, disse che è “la storia di una nazione che si è costruita gradualmente in base ad un'identità di lingua e di cultura, che ha preceduto di secoli la formazione dello Stato, in un processo che appare miracoloso, ma che in realtà è stato faticoso, contraddittorio, spesso paradossale, pieno di sacrifici, in gran parte deludente (Risorgimento senza eroi, come avrebbe detto il nostro Gobetti)”.

A Gobetti, alla visione storica e politica dell'autore di Risorgimento senza eroi, Spadolini cominciò ad accostarsi sin dai precocissimi passi compiuti nell'apprendimento del mestiere di storico. Nell'ultima prefazione di questo libro, datata marzo 1993, attribuisce all'insegnamento gobettiano l'inclinazione “a tutto rivedere, a tutto ripensare, a tutto ridiscutere, senza l'aiuto di alcuna liturgia, senza lo scenario di alcuna terra promessa”. Scrive ancora in Gobetti. Un'idea dell'Italia che non c'era nel giovane scrittore un uso del termine liberale nel senso opposto alla convenzione e alla tradizione e la sua era una rivoluzione liberale che non essendoci mai stata nel nostro Paese doveva essere proiettata verso il futuro. Ancora una citazione: “Contro tutti i compromessi tradizionali della storia italiana... Gobetti richiamò al coraggio dei propri ideali, all'assunzione delle proprie responsabilità e dell'eroismo del proprio impegno”. Visione liberale, laica e, come avrebbe aggiunto Montale, “tragica” della nostra storia. Era questo senso tragico della storia che distingueva Gobetti dai cattolici e dai comunisti: “La sua modernità – così ancora Spadolini – consiste in un principio di eresia permanente, di non conformismo e di antidogmatismo, contro ogni concezione totalizzante, contro ogni residuo fideista”.



Norberto Bobbio, Gli uomini che fecero l'Italia di Giovanni Spadolini

Norberto Bobbio

giovedì 21 febbraio 2013

Macchiaioli, Giovanni Fattori | “Gli uomini che fecero l'Italia” di Giovanni Spadolini | Libecciata, olio su tela

“Macchiaioli”. È una parola che i francesi non riescono né a tradurre né a pronunciare. Tachistes (in francese macchia si traduce in tache) indica una scuola artistica radicalmente diversa. Impronunciabile il nome, per un secolo e più la critica francese ha ignorato la scuola livornese-fiorentina che si chiamò tale, alle origini dello Stato unitario, nel 1862, per reazione polemica al giudizio derisorio e ironico di un quotidiano torinese. E prima che Torino perdesse, a vantaggio di Firenze, il ruolo di capitale.
È stato un contenzioso di silenzi o di equivoci, che si è chiuso solo, nell'autunno del 1978, con la mostra al “Gran Palais” dedicata a “I macchiaioli peintres en Toscane aprés 1850”, con quel titolo semplice e scabro.
[…] Solo Giovanni Fattori aveva squarciato, in qualche momento, la nebbia dell'indifferenza generale o della sufficienza e alterigia burocratica.
[…] Essenziale, nella sua storia personale ed artistica, l'origine livornese. Livorno: la città più libera della Toscana ottocentesca. La città che per prima aveva tradotto l'Encyclopédie e introdotto gli illuministi nella penisola. La città dell'Indicatore livornese, sacra alle prime esperienze di Mazzini. La città delle passioni repubblicane represse e del tempestoso magistero guerrazziano. La città dove il Quarantotto significò qualcosa, turbamento, lacerazione di vecchi schemi, quasi insurrezione popolare e non fu soltanto aggiustamento o evocazione di antichi miti nazionali, di remote illusioni archeologiche.
[…] Come livornese, come guerrazziano, Giovanni Fattori partiva da una posizione democratica, popolaresca e, almeno agli inizi, repubblicaneggiante. Non era e non sarà mai uomo della consorteria.
[…] Nel complesso, al di là di ogni giudizio e di ogni annotazione estetica, quell'opera pittorica, quella specie di Risorgimento illustrato, assolverà una funzione precisa di apostolato e di pedagogia nazionali, paragonabile a De Amicis col suo Cuore.
Dal punto di vista artistico, il “monumentale” Assalto alla Madonna della Scoperta non riesce ad allontanare lo sguardo dalle piccole e incantate marine di Castiglioncello, dagli abbozzi di vita campestre, in cui il brivido della pittura macchiaiola si avverte con un ritmo tanto più intenso e sofferto. 
Il suo mondo ideale è delimitato dalle pianure solitarie della Maremma, e le macchie dei boschi si identificano con gli artifici pittorici, e gli alberi taciturni e potenti diventano veicoli di un paesaggio che non è mai retorico, che è teso esclusivamente alla scoperta della natura (non a caso i cavalli dominano le opere di un tipo e dell'altro).
Si è parlato di Corot per Fattori, e non esistono dubbi sulla profonda ammirazione del pittore italiano (che conosceva Parigi, che non era affatto un “sempliciotto”, come fu descritto) per il grande artista d'oltralpe, da lui rivisitato con devota attenzione nel 1875. E in Giovanni Fattori c'è, come in Corot, l'ambiguità fra l'arte tradizionale che si consuma e l'arte nuova che è anticipata, intuita, scoperta.
Grande pittore, Fattori fu grandissimo come incisore e acquafortista. Con metodo personalissimo e con una fedeltà meticolosa, puntigliosa da artigiano, ebbe la capacità di elaborare un corpus di oltre centosessanta lastre, che costituiscono un record nell'arte italiana: tutte omogenee, respiranti in uno stesso clima. Il frutto di una tecnica mirabile che si inserisce, con una vena inconfondibile, nel clima di naturalismo e di verismo sociale che negli stessi anni, in opposizione all'impressionismo, impronterà di sé tanta parte della produzione artistica e letteraria d'Europa.
Gli uomini che fecero l'Italia, Giovanni Spadolini

Libecciata, olio su tela Giovanni Fattori

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Gianluca Salvati - Lotta di cani

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