“Macchiaioli”. È una parola che i francesi non riescono né a tradurre né a pronunciare. Tachistes (in francese macchia si traduce in tache) indica una scuola artistica radicalmente diversa. Impronunciabile il nome, per un secolo e più la critica francese ha ignorato la scuola livornese-fiorentina che si chiamò tale, alle origini dello Stato unitario, nel 1862, per reazione polemica al giudizio derisorio e ironico di un quotidiano torinese. E prima che Torino perdesse, a vantaggio di Firenze, il ruolo di capitale.
È stato un contenzioso di silenzi o di equivoci, che si è chiuso solo, nell'autunno del 1978, con la mostra al “Gran Palais” dedicata a “I macchiaioli peintres en Toscane aprés 1850”, con quel titolo semplice e scabro.
[…] Solo Giovanni Fattori aveva squarciato, in qualche momento, la nebbia dell'indifferenza generale o della sufficienza e alterigia burocratica.
[…] Essenziale, nella sua storia personale ed artistica, l'origine livornese. Livorno: la città più libera della Toscana ottocentesca. La città che per prima aveva tradotto l'Encyclopédie e introdotto gli illuministi nella penisola. La città dell'Indicatore livornese, sacra alle prime esperienze di Mazzini. La città delle passioni repubblicane represse e del tempestoso magistero guerrazziano. La città dove il Quarantotto significò qualcosa, turbamento, lacerazione di vecchi schemi, quasi insurrezione popolare e non fu soltanto aggiustamento o evocazione di antichi miti nazionali, di remote illusioni archeologiche.
[…] Come livornese, come guerrazziano, Giovanni Fattori partiva da una posizione democratica, popolaresca e, almeno agli inizi, repubblicaneggiante. Non era e non sarà mai uomo della consorteria.
[…] Nel complesso, al di là di ogni giudizio e di ogni annotazione estetica, quell'opera pittorica, quella specie di Risorgimento illustrato, assolverà una funzione precisa di apostolato e di pedagogia nazionali, paragonabile a De Amicis col suo Cuore.
Dal punto di vista artistico, il “monumentale” Assalto alla Madonna della Scoperta non riesce ad allontanare lo sguardo dalle piccole e incantate marine di Castiglioncello, dagli abbozzi di vita campestre, in cui il brivido della pittura macchiaiola si avverte con un ritmo tanto più intenso e sofferto.
Il suo mondo ideale è delimitato dalle pianure solitarie della Maremma, e le macchie dei boschi si identificano con gli artifici pittorici, e gli alberi taciturni e potenti diventano veicoli di un paesaggio che non è mai retorico, che è teso esclusivamente alla scoperta della natura (non a caso i cavalli dominano le opere di un tipo e dell'altro).
Si è parlato di Corot per Fattori, e non esistono dubbi sulla profonda ammirazione del pittore italiano (che conosceva Parigi, che non era affatto un “sempliciotto”, come fu descritto) per il grande artista d'oltralpe, da lui rivisitato con devota attenzione nel 1875. E in Giovanni Fattori c'è, come in Corot, l'ambiguità fra l'arte tradizionale che si consuma e l'arte nuova che è anticipata, intuita, scoperta.
Grande pittore, Fattori fu grandissimo come incisore e acquafortista. Con metodo personalissimo e con una fedeltà meticolosa, puntigliosa da artigiano, ebbe la capacità di elaborare un corpus di oltre centosessanta lastre, che costituiscono un record nell'arte italiana: tutte omogenee, respiranti in uno stesso clima. Il frutto di una tecnica mirabile che si inserisce, con una vena inconfondibile, nel clima di naturalismo e di verismo sociale che negli stessi anni, in opposizione all'impressionismo, impronterà di sé tanta parte della produzione artistica e letteraria d'Europa.