Uomo che saluta - olio su tela 1996

Uomo che saluta - olio su tela 1996
Esposto nel 1997 (c'era quel coniglio di Piero Golia) - coll. Franco Chirico

Saul Bellow 1997: funzione dell'arte

Io non propongo assolutamente niente. Il mio unico compito è descrivere. I problemi sollevati sono di ordine psicologico, religioso e - pesantemente - politico. Se noi non fossimo un pubblico mediatico governato da politici mediatici, il volume della distrazione forse potrebbe in qualche modo diminuire. Non spetta a scrittori o pittori salvare la civiltà, ed è uno sciocco errore il supporre che essi possano o debbano fare alcunché di diverso da ciò che riesce loro meglio di ogni altra cosa. […] Lo scrittore non può fermare nel cielo il sole della distrazione, né dividere i suoi mari, né colpire la roccia finché ne zampilli acqua. Può però, in determinati casi, interporsi tra i folli distratti e le loro distrazioni, e può farlo spalancando un altro mondo davanti ai loro occhi; perché compito dell’arte è la creazione di un nuovo mondo.
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mercoledì 11 giugno 2014

# L’articolo - p. II # | Enrico De Simone, Carlo Fermi e Max Mauro - La Voce d'Italia, Caracas: giornale fascista con velleità sinistroidi

Andammo alla pizzeria Nonna bella di Chacaito e ordinammo delle pizze.

Scendendo da via Nivaldo, nei pressi della mia abitazione, incrociammo un tipo semi alcolizzato che nei primi tempi aveva provato a spillarmi dei soldi. Fino al giorno che,  avendomi chiesto di tenergli della refurtiva in casa, lo misi a posto una volta per tutte. Anche se quello era un quartiere residenziale, infatti, confinava con la favela, che in Venezuela si chiama rancho. La qual cosa non mi scandalizzava: mi sono sempre piaciuti i luoghi popolari. Ma quando raccontai ai compaesani la storia di quel tipo, loro si galvanizzarono, fu il tema della serata in pizzeria.

Max Mauro era in Venezuela da poco ed era stato alloggiato dal responsabile del giornale fascista per cui lavorava (La Voce d’Italia) in un albergo mal frequentato, raggiungerlo di sera a piedi voleva dire esporsi a rapina certa, dato che si trovava in una zona della città completamente al buio. Neanche fosse stata la bocca dell’inferno.

Max ci raccontò di alcuni personaggi equivoci che risiedevano nel suo hotel. Carlo Fermi scriveva messaggini a ruota.

L’altro argomento della sera, neanche a dirlo, furono i miei quadri. Le prime osservazioni partirono da Carlo Fermi, il quale quella sera era lì per puro caso: per vedere la casa dove vivevo... A seguire attaccò Enrico De Simone che, anche quella sera, mi pareva il suo fido cagnolino da compagnia.

In sostanza i due compari mettevano in dubbio l’autenticità della mia produzione pittorica. 



Da non credere, quei due vermi, due venduti agli ordini di chissà chi, che davano del veniale a me. Sembrava il colmo dei colmi. Ed erano lì per puro caso. O almeno questa era la loro versione.

Alla fine della pizza e delle chiacchiere, Carlo Fermi tirò le fila della forbita conversazione: dato che io ero forte e non avevo paura, avrei accompagnato Max al suo albergo che non era molto distante dalla piazza. Poi sarei tornato col taxi. 
Lui intanto andava, perché aveva un impegno: era un uomo di mondo, aveva studiato alla Bocconi per fare simili ragionamenti... (pochi anni dopo, Carlo Fermi si installerà a Medellin, capitale mondiale della cocaina, in Colombia).
Non se ne parla”, gli risposi. Provarono inutilmente ad insistere i due compari.

Alla fine si rassegnarono: saremmo andati con Enrico e Pier ad accompagnare Max.

Eravamo nella piazza di Chacaito, stavo scrivendo l’email del Pier sul cellulare, ad un certo punto notai il negretto che guardando verso di noi, saltò giù dal muretto dov’era seduto insieme ad altri. Non ci diedi il giusto peso e quelli presero a seguirci. A un certo punto, poco prima di uscire dalla piazza, parte di quella teppa ci superò, prendendo diverse direzioni.
Neanche il tempo di raccapezzarmi e pensare: “ Ma che storia è questa?...”, che venni colpito alla nuca. Che botta!

L’ultima scena che vidi prima di perdere i sensi fu Enrico De Simone: si girava come uno che già conosca il copione e con la sua nota espressione sulla faccia abbassa la testa, come a dire: “Ben ti sta!”. E molto casualmente a lui nessuno lo toccò.
Quando mi ripresi avevo il braccio del negretto che mi stringeva al collo. Il tipo era più basso di me, ma aveva un avambraccio di tutto rispetto e si teneva ben piantato al suolo. Ebbi la mia brava reazione e provai a scrollarmi da dosso quell’animale. Gli afferrai il braccio con entrambe le mani, tirai in avanti verso il basso e gridai come un animale. Ecco, due animali.

Ero fuori forma, e il negretto non fece il volo che avrebbe dovuto fare, ma dovette muoversi in avanti con passi veloci per non cadere. Aveva le scarpe lucide di pelle con la suola in cuoio che battendo sulle pietre della piazza, produssero uno scalpiccio piuttosto acuto. La scena aveva del comico.
Si fermò di fronte a me a tre metri circa. Ci fronteggiavamo io e il negretto e il tipo fece il gesto di mettere le mani dietro la cintura per prendere il coltello.
A quel punto scappai, senza molta convinzione, mi pareva di andare al rallentatore. In quel momento uno di quei figli di troia mi lanciò una bottiglia di birra che si fracassò sulla coscia in prossimità del mio ginocchio sinistro.
Ritornai nella piazza e mi fermai. Avevo ancora il cellulare nella mano sinistra. E i miei compagni?

Un attimo dopo vidi un tipo ridicolo che correva a slalom. Era Enrico De Simone.

Non si perse d’animo il periodista di destra, quel finto chavista subito prese ad aggredirmi verbalmente: era colpa mia se ci avevano aggredito; camminavo col cellulare in mano. “E guarda lì che ti sei fatto!

Si sentì uno sparo e dopo si vide la teppaglia scappare nella nostra direzione. Ritornammo al ristorante Nonna bella. Enrico chiamò la polizia. Io mi feci dare del ghiaccio per l’ematoma della bottigliata.
La polizia era già lì. Una pattuglia in moto aveva sentito il mio grido. Poi aveva incrociato Pier che gli aveva indicato il luogo dell’aggressione. Avevano sparato in aria per disperderli. Non avevano neanche tentato, che so, di acciuffarne qualcuno.

Prendemmo un taxi per tornare a casa. Passando davanti ad una pensilina degli autobus c’erano dei ragazzi. Appartenenti a quella teppa, ci avrei scommesso. Ero ancora dell’idea che andassero acciuffati ma non lo dissi a Enrico, a che serviva. 
Avevo attraversato quella piazza di Chacaito un'infinità di volte, spesso di notte, spesso da solo e non mi era mai accaduto neanche l'accenno di una rapina. Posso affermarlo con certezza: meglio solo, che male accompagnato...

A casa continuai a tenere il ghiaccio sull’ematoma e mi fumai una sigaretta.

Il giorno dopo, il 30 aprile del 2006, Enrico De Simone mi inviò questo messaggio: Hola guerrero, todo bien? Il grande "amico" Enrico De Simone, che oggi scrive per il giornale on line di un colonnello, Gaetano Quagliariello, del partito piduista.

Quando ci rivedemmo, Pier non ci poteva credere: “Ti hanno aggredito in due e li hai messi fuori gioco...”. Non ricordavo che erano in due, però ripensandoci mi tornò in mente, il secondo l’avevo colpito col dorso della mano sinistra al volto. Era stata la mia reazione prima di perdere i sensi.

Più di una persona mi dirà in seguito che ho fatto male a reagire, che così rischiavo la vita e cose del genere... Sono certo che avrei rischiato di più se non avessi reagito. Erano mal intenzionati dal  primo momento, almeno nei miei confronti. A Enrico, infatti, non lo avevano neanche sfiorato. Il Pier era riuscito a divincolarsi  Max si era ritrovato a terra mentre quelli gli frugavano nelle tasche.

Su una cosa concordammo e fu abbastanza scioccante: erano tutti ben vestiti. Una élite di marioli, del tipo che lavorano su commissione. Non a caso.

Avevo da poco denunciato all’autorità competente quegli infami delinquenti in grisaglia dell’associazione Agustin Codazzi, la scuola presso cui avevo lavorato a Caracas. E meno male, perché ho potuto mettere un punto fermo nei confronti di quella gente, e del regime che li protegge e che un domani, grazie ad apparati deviati dello Stato, avrebbe potuto avallare altre menzogne, più o meno come hanno provato a fare senza successo quegli infami della cricca Codazzi al Tribunale di Caracas.

domenica 27 ottobre 2013

# L'articolo I # | Carlo Fermi, Max Mauro, Enrico De Simone: La Voce d'Italia, Caracas, giornale fascista con sinistre velleità | Anna Grazia Greco, la fuorilegge

Quando Max Mauro, giornalista de La Voce d'Italia, venne a Caracas nella primavera del 2006, si era messo in testa di scrivere un articolo sulla mia produzione pittorica. Io non ero d'accordo. Per me un articolo era sensato nel caso di una mostra. Altrimenti mi sembrava una cosa a metà. Enrico De Simone concordava con la mia scelta: anche lui aveva preso a cuore le sorti della mia carriera di artista plastico. Al punto che quando ci fu la proroga del Premio Italia, edizione 2006, cui non avevo aderito, Enrico De Simone si sentì in dovere di mettersi nelle orecchie affinché partecipassi anche a quelle selezioni. Dall'idea che mi ero fatto di quel premio, gestito dalla fuorilegge Anna Grazia Greco, era solo tempo perso, non valeva la pena. Ma quando Enrico De Simone, giornalista de La Voce d'Italia, mi disse di riprovare perché era comunque una chance, allora ritentai. A questo servono gli amici. 
Anche se dell'amico in questione mi è rimasta stampata l'espressione di quando gli comunicai che ero stato scartato. Enrico De Simone piegò la testa senza guardarmi, come se avesse detto: "Ben ti sta!". L'amico De Simone, finto chavista e chissà quant'altro... Di certo finto amico.

Enrico De Simone, finto chavista

Tornando a Max Mauro non era del mio stesso avviso e tanto fu soddisfatto quando accettai l'intervista. Una volta avuto l'ok, aveva bisogno di vedere e fotografare i quadri. Concordammo un incontro, dopodiché mi richiamò per aggiungere che sarebbero venuti anche Enrico De Simone e Carlo Fermi, in quanto interessati al mio appartamento: volevano vederlo. 

Quando si presentarono, avevano dato appuntamento a casa mia ad un loro conoscente che tornava da un viaggio fuori Caracas. Dunque ad un certo punto scesi, lasciando a casa Carlo Fermi, Enrico e Max, andai ad attendere il taxi.

Carlo Fermi, imprenditore italiano in Colombia

Il taxi arrivò nel modo più spettacolare e chiassoso possibile. Un vecchio macchinone americano (comune in Venezuela) con un signore di colore che, visibilmente brillo e con una bottiglia in mano per attestarlo, sedeva sul cofano. Quel signore si era gentilmente offerto di indicare la strada e la indicava letteralmente. Nel taxi, oltre all'autista e all'amico degli amici, c'era anche una coppia di stranieri, pare olandesi, che avevano condiviso parte del viaggio con il conoscente dei periodisti

Al momento di rientrare nella villa, il navigatore del taxi si fece avanti per bussare a denaro. Mandai dentro l'ospite e parlai a quattr'occhi con quel signore brillo. Lo ringraziai, innanzitutto, per il suo operato, ma non avrebbe avuto niente. Il signore mi comunicò di essere armato di pistola. Gli risposi che avevo anch'io una pistola. Il finto ubriaco parve soddisfatto. Gli olandesi sembravano molto divertiti. Il tipo risalì sul cofano e partirono così com'erano arrivati, scomparendo chiassosamente dalla mia vista.

Quando salii si sentirono esplosioni di fuochi d'artificio. Qualcuno alla Florida stava festeggiando... Tess, il cane della proprietaria, si andò a nascondere spaventata in un angolo, proprio dove tenevo il portatile (lo stesso da cui sto scrivendo), che per poco non cadde a terra. Lo prese quasi al volo il nuovo arrivato che, devo ammetterlo, era uno a posto.
Mostrai a Max Mauro i quadri. Lui scattò tre foto per l'articolo di giornale. Poi uscimmo.

lunedì 3 maggio 2010

Max Mauro - Un pittore napoletano a Caracas - La Voce d'Italia

CARACAS– Che ci fa un pittore napoletano a Caracas? E’ la prima domanda che il cronista si pone incontrando Gianluca Salvati, artista figurativo con alle spalle diverse mostre collettive e una personale nella città di origine, che da due anni risiede nella capitale venezolana.
Sono arrivato come insegnante della scuola italiana Codazzi”, risponde con un sorriso aperto e il tipico accento della sua terra di origine questo giovane che non dimostra i suoi 38 anni. “A un certo punto della mia vita mi sono trovato di fronte a una scelta: vivere di pittura facendo delle opere commerciali oppure trovarmi un lavoro che mi consentisse di continuare a dipingere ciò che più mi piace, senza badare al mercato. Così ho rispolverato il diploma magistrale che ho conseguito prima di compiere gli studi all’accademia dell’arte di Napoli e mi sono immerso nell’insegnamento”. Prima di arrivare in Venezuela, Gianluca ha vissuto per un anno a Casablanca, in Marocco, lavorando sempre come insegnante di italiano. Sembra che la sua vita sia legata all’incontro con altre culture, allo spaesamento di chi decide di vivere lontano da casa. Un emigrante moderno o un artista alla ricerca di stimoli?
Mi piace entrare in contatto con altre culture, ma non è stata una decisione programmata quella di venire in Venezuela o andare in Marocco. Si è presentata l’occasione e l’ho colta, tutto qua. E’ chiaro che tutto quello che vedo e assorbo nei luoghi i cui vado mi trasmette qualcosa che in un modo o nell’altro poi traspongo nei quadri”. Nel suo periodo venezolano ha creato sette opere, sette quadri di forte impatto emotivo, perché tutti hanno per protagonisti figure umane, ritratte in posizione distesa, viste di fronte. “Una delle prime cose che mi hanno colpito a Caracas erano le persone distese in strada, mendicanti e barboni. Vedevo qui corpi e mi veniva istintivo di raccogliere degli schizzi o di fotografarli. Non l’ho fatto, per pudore o rispetto, ma poi, quando ho sentito il bisogno di dipingere, ho affittato uno studio e il risultato del mio lavoro sono questi quadri”.
Il rapporto di Gianluca con la pittura è molto intenso, ammette che è la cosa che gli piace più fare nella vita, ma trascorre lungo periodi senza dipingere. “Fin da piccolo ho avuto la passione per i colori e il disegno. La mia è una famiglia di musicisti: la nonna, il babbo, i miei due fratelli, tutti musicisti. Io sono l’unico che si dedica alla pittura, però passo dei lunghi periodi in cui non mi avvicino alla tela. Per dipingere serve tranquillità e in certi momenti devi lasciare maturare le sensazioni che vuoi trasmettere dipingendo, devi studiare, ricercare”.
Nei primi tempi non riusciva ad abituarsi al clima dei Caraibi e soprattutto all’assenza delle stagioni come si vivono in Italia, ma ora si è affezionato al paese. “Ci sono dei paesaggi spettacolari e il ritmo della vita è più rilassato, meno stressante. E poi stando in America Latina ho avuto modo di conoscere le opere di grandi artisti come il venezolano Jesus Soto o il messicano Rufino Tamayo. Mi piace molto anche l’artigianato indigeno, i lavori fatti a mano”, dice.
Chiusa l’esperienza alla scuola italiana, Gianluca sta ora seguendo un corso di grafica, altra sua passione, e programma il rientro in Europa. Prima di partire deve tuttavia prendere una decisione: che fare dei quadri realizzati in Venezuela? “Al principio non mi piacevano, poi ho cambiato idea e forse alcuni li porterò con me, anche se non è facile svolgere la tela, rischi di rovinarli. Insomma, non ho ancora ben chiaro che farne, forse li regalerò. Venderli? Non li ho pensati per questo”.
Pubblicato il 08 maggio 2006 da Max Mauro-9/5/06

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Gianluca Salvati - Lotta di cani

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