Uomo che saluta - olio su tela 1996

Uomo che saluta - olio su tela 1996
Esposto nel 1997 (c'era quel coniglio di Piero Golia) - coll. Franco Chirico

Saul Bellow 1997: funzione dell'arte

Io non propongo assolutamente niente. Il mio unico compito è descrivere. I problemi sollevati sono di ordine psicologico, religioso e - pesantemente - politico. Se noi non fossimo un pubblico mediatico governato da politici mediatici, il volume della distrazione forse potrebbe in qualche modo diminuire. Non spetta a scrittori o pittori salvare la civiltà, ed è uno sciocco errore il supporre che essi possano o debbano fare alcunché di diverso da ciò che riesce loro meglio di ogni altra cosa. […] Lo scrittore non può fermare nel cielo il sole della distrazione, né dividere i suoi mari, né colpire la roccia finché ne zampilli acqua. Può però, in determinati casi, interporsi tra i folli distratti e le loro distrazioni, e può farlo spalancando un altro mondo davanti ai loro occhi; perché compito dell’arte è la creazione di un nuovo mondo.

sabato 23 novembre 2013

Licio Gelli e i servizi segreti delle fiamme gialle | I servizi italiani

[...] E in politica? L'informatore scriveva testualmente: «Gelli fino al '56 era di orientamento comunista e faceva parte del comitato comunista dal quale fu radiato in quell'anno. Successivamente manifestò orientamento DC. Pur mantenendosi nel quadro DC è più destrorso che di centro ... »
Buona parte di queste informazioni apparivano tutt'al­tro che sconvolgenti, specialmente a chi le apprendeva nel 1982. I particolari nuovi e di un qualche interesse erano solo due: l'accenno a presunti interessi finanziari di An­dreotti in una fabbrica di materassi a molle e la rottura, nel 1956, tra Licio Gelli e i comunisti pistoiesi. Ma questi cinque fogli in apparenza così poveri di particolari erano legati a vicende che come al solito risultavano piuttosto interessanti.
Questa volta l'informatore aveva un nome e un volto: si chiamava Luciano Rossi, tenente colonnello delle fiam­me gialle, e anche prima di occuparsi del Venerabile ave­va portato a termine missioni importanti e delicate. Pro­prio in questa occasione, leggendo i giornali, ero venuto a sapere che anche la guardia di finanza ha un suo servizio segreto, staccato da quelli che lavorano per le altre forze armate e per il ministero degli Interni. Si chiama servizio informazioni o servizio I; vi lavorano una quarantina di ufficiali, selezionati con cura. Luciano Rossi, appunto dal 1970 al 1975, l'anno successivo alla stesura della informa­tiva, aveva lavorato per «il servizio I», anzi aveva diretto il «centro occulto» di Roma, una specie di ufficio segreto all'interno del servizio segreto. Il colonnello Salvatore Florio, capo dell'intero settore informativo, gli aveva ap­punto affidato, come direttore del «centro occulto», l'in­dagine sul Venerabile. Rossi era partito per Arezzo, che del resto era la sua città natale, aveva parlato con parenti e amici, e qualche settimana dopo aveva consegnato al su­periore due copie dei suoi sei capitoletti.
Ancora una volta sarebbero accaduti episodi strani. La macchina di Salvatore Florio aveva sbandato in autostra­da e il colonnello insieme all'autista era morto sul colpo. Questo incidente era inconsueto, perché la vettura proce­deva a velocità moderata e l'autista non aveva neppure tentato di frenare. Lo stesso Rossi, confidandosi con un amico, aveva pensato a un sabotaggio. Probabilmente i sospetti erano in questo caso eccessivi, o comunque il mi­sterioso episodio non andava attribuito alla conoscenza di quei sei capitoletti. Il Florio infatti era morto nel 1978, quattro anni dopo esserne venuto in possesso.
Invece le vicende altrettanto tristi del Rossi erano sicu­ramente collegate in qualche modo alle sue indagini su Licio Gelli. Nel 1975 il tenente colonnello aveva dovuto lasciare il «centro occulto» e trasferirsi a Napoli. Pochi mesi dopo si era iscritto alla massoneria. Da allora la sua vita professionale era tornata abbastanza tranquilla. Ma il 26 maggio del 1981 il povero colonnello aveva ricevuto un annuncio, o meglio ancora una convocazione, che lo aveva sconvolto.
Il sostituto procuratore della repubblica di Milano, Pier Luigi Dell'Osso, lo aveva invitato nel suo ufficio e gli ave­va presentato la minuta della informativa che lo stesso Rossi aveva redatto sul conto di Licio Gelli nel marzo del 1974. Quei cinque fogli, invece di stare nel cassetto del co­lonnello, erano stati trovati nel valigione del Venerabile sequestrato due mesi prima alla GIOLE. Che cosa ne pensa­va il colonnello?
Rossi, in una «memoria» scritta, aveva mandato a dire al giudice di aver «probabilmente» lasciato la minuta del­la informativa nel suo cassetto. Prima di trasferirsi a Na­poli lui stesso aveva vuotato la scrivania, ma senza curarsi troppo di ciò che conteneva. Tanti anni dopo non era in grado di ricordare se fra quelle carte la minuta della in­formativa ci fosse ancora.
La giustificazione era ingegnosa, ma non del tutto con­vincente. Del resto il giudice aveva buoni motivi per dubi­tare anche dell'esattezza di un altro particolare. Rossi gli aveva mandato a dire: «Non ho conosciuto né conosco né ho avuto rapporti con Licio Gelli». Ma proprio un intimo amico del colonnello avrebbe riferito in seguito che il Venerabile, proprio nel 1974, aveva avvicinato ad Arezzo Rossi e gli aveva domandato, in termini non certo ami­chevoli, come mai stesse indagando su di lui.
Questo episodio mi serviva a collocare al posto giusto altri dettagli. Potevo ragionevolmente supporre che Rossi, una volta avvicinato e allarmato dal Gelli, fosse entrato in massoneria per ottenere protezione. Potevo persino ipotiz­zare che il Venerabile, con argomenti persuasivi, si fosse fatto dare dal povero colonnello la minuta di quegli appunti che aveva consegnato a Florio.
Ipotesi quest'ultima quanto mai probabile, alla luce dei successivi avvenimenti. Poche settimane dopo l'incontro col giudice Dell'Osso, e due giorni dopo avergli spedito la sua giustificazione, Rossi fu trovato morto nel suo ufficio con una rivoltella in mano e una pallottola nella tempia.
Come al solito molti colleghi dubitarono del suicidio ma io rifuggo per istinto dalle supposizioni troppo roman­zesche. Tanto più che in questo caso non occorreva far ga­loppare la fantasia: bastava scorrere il rapporto che il co­mando generale della finanza aveva redatto su questo do­loroso episodio per il ministro Formica, e che Formica aveva fatto pervenire al parlamento. Vi si leggeva: «La causa scatenante della determinazione suicida del Rossi può ricercarsi nell'interrogatorio subito a Milano, messo in rapporto con la circostanza secondo cui avrebbe an­ch'egli aderito a una loggia massonica. E verosimile che la consapevolezza di essere stato autore di due antitetici comportamenti (l'aver acquisito in un certo momento del­la sua carriera notizie informative del Gelli Licio e l'esser­si poi, se è vero, indotto a far parte di un organismo del genere) abbia accelerato il progressivo, parossistico dete­rioramento dell'equilibrio psichico del Rossi.»

[...] L'Italia è il paese dove i servizi segreti sono stati più spesso rinnovati o "riformati". Abbiamo avuto il SIM dal 1925 al 1949, il SIFAR dal 1949 al 1966, il SID dal 1966 al 1977. Attualmente abbiamo il SISMI e il SISDE (oggi Aise, ndr) nel corso di questa narrazione i servizi segreti saranno ricordati, ogni volta, con il nome che avevano in quel momento.
Gelli - La carriera di un eroe di questa Italia, Gianfranco Piazzesi (ed. Garzanti)

Pinocchio, elaborazione digitale - Gianluca Salvati - 2008

sabato 9 novembre 2013

Pittura figurativa contemporanea - colore e luce

Colorismo: (agg. colorista) in pittura, tendenza a far prevalere il colore sul disegno e sulla linea; effetto stilistico basato sul colore più che sulla composizione o che mette in risalto le qualità del colore. Nell'arte rina­scimentale si può trovare un esempio di pittura coloristi­ca in Tiziano , nelle cui composizioni le qualità tonali del colore assumono un'importanza fondamentale. Nella pittura moderna, Delacroix e gli lmpressionisti ci offrono due esempi di prevalenze del colore sulla linea. Delacroix, in polemica con la tenden­za di Ingres ad «esagerare i contorni», fa una pittura ba­sata su forti contrasti di colore, poiché solo il colore, che è luce, può dare spessore, e quindi vita, alle forme. Anche per gli Impressionisti le forme non possono essere ottenute con le linee, ma con i colori, che vengono stesi con rapidi colpi di pennello per suggerire l'impressione della mutevolezza e transito­rietà dell'immagine.
Scrittori e opere, Marchese/Grillini


1997, olio su tela - Gianluca Salvati

venerdì 8 novembre 2013

Storia di un quadro | Arte e impegno di Carlos Fuentes

Personalmente non credo alla figura dello scrittore “impegnato”, così come credo che nessun artista possa essere obbligato a prendere una posizione.
Ritengo che uno scrittore soddisfi i propri obblighi morali nel momento in cui riesce a mantenere vitale la propria immaginazione e il proprio linguaggio. I primi atti compiuti da Hitler, Stalin e gli altri tiranni sono stati quelli di mettere al bando la scrittura e la libera stampa: non c’è nulla che un dittatore teme maggiormente dell’immaginazione. Uno dei motivi per cui sono particolarmente felice per il premio Nobel attribuito a Günter Grass è l’implicito riconoscimento per lo straordinario lavoro di restauro e di rivitalizzazione che lui ha compiuto attraverso l’immaginazione su una lingua mortificata da un periodo di barbarie. È esattamente questo il fine ultimo che dovrebbe avere uno scrittore in campo politico, e a questo riguardo ci sono esempi illuminanti da parte di autori che hanno preso posizioni in apparenza più distaccate: pensi a Balzac che si dichiarava reazionario e monarchico, ma attraverso la sua scrittura, e il mondo che ha descritto in maniera indimenticabile, ha influenzato milioni di persone che hanno fatto scelte politiche diverse dalle sue, non ultimo Karl Marx.  Non esistono regole fisse sul ruolo dello scrittore, né della letteratura.
[…]  Io sono tra coloro che pensano che il modo migliore per essere realmente universali è rimanere fedeli alle proprie radici.  Questo non significa che bisogna rimanere all’interno degli orizzonti del proprio paese: credo che il mondo moderno inviti chiunque a partecipare della cultura altrui, a condizione di non snaturare la propria.
Carlos Fuentes

Violencellista, olio su tela - 1998

giovedì 7 novembre 2013

Arte maori | Le forme del mito e i tatuaggi

[…] Bellicosi guerrieri, leggendari navigatori e abili scultori: ecco chi erano i maori prima dell’arrivo dei bianchi.
[…]  I maori credono che la scultura sia un’invenzione divina: era sconosciuta agli uomini fino al momento in cui Tangaroa, divinità del mare, rapì il figlio dell’eroe Rua.  Partito alla ricerca del bambino, Rua entrò nella dimora del dio, dove fra i tesori scoprì immagini scolpite che portò via con sé.  Così gli uomini dei Mari del Sud impararono a lavorare il legno e la pietra per raffigurare dei e antenati: per dare alle statue la forza che incarna lo spirito dell’avo o delle divinità.
Al di là della leggenda, per un popolo che non conosceva la scrittura, scolpire era il mezzo per tramandare la propria storia: le travi delle marae raccontano l’origine del clan, le prue delle canoe il lungo viaggio attraverso il Pacifico. I maori hanno lavorato ogni materiale reperibile nelle due isole: legno, osso, conchiglie, nefrite e giada. Gli attrezzi di pietra, osso e conchiglia usati tradizionalmente per scolpire sono stati sostituiti da ceselli, pialle e seghetti elettrici.  Al posto dell’ocra, con cui venivano dipinte le sculture, si usa la vernice rossa. L’effetto tridimensionale è reso attraverso la diversa profondità del taglio per creare giochi di luce e di ombre.
[…]  Se per molti clan i disegni cutanei sono oggi il frutto di riflessioni culturali e spirituali, per i loro antenati avevano una funzione decorativa, non denotavano il rango della persona, né erano prova di coraggio.  I motivi curvilinei usati per tatuare erano simili a quelli raffigurati nelle sculture. Intricatissime decorazioni artistiche che non avevano pari nel mondo, a eccezione degli indigeni delle Isole Marchesi.  Il tatuaggio è un costume di origine polinesiana.
Marco Moretti

Nudo rosso, acrilico su tavola - Gianluca Salvati - 1996

martedì 5 novembre 2013

Welcome to Artworld | "Good - Piero Golia c'era...", olio su tela

In America il mercato dell’arte si fa anche istituzione, più di quanto sia mai successo altrove. Ed è proprio nel passaggio dal mondo dell’arte ad Artworld (un ambiente artificiale che somiglia a un parco a tema) che Hughes individua i prodromi della crisi creativa americana di cui egli è ora il cronista più lucido.
L’era dell’ansietà con l’inizio della guerra in Vietnam, porta con sé il rifiuto della bravura tecnica, che le scuole d’arte americane scontano ancora adesso. Nei leggeri anni Ottanta, la distruzione del mercato dell’arte si camuffa da boom: prezzi inflazionati, musei costretti dalla competizione a vendere invece che a comprare, case d’asta dove si prestano i soldi ai compratori, giornali che dimettono la funzione critica per farsi bollettini pubblicitari, il gergo postmodernista alla Baudrillard.
 Niente a confronto di quello che è successo poi: “Se l’idea di gusto sembrava fuori moda negli anni Ottanta, nei Novanta divenne un concetto offensivo, poiché si porta dietro l’idea della discriminazione, che a sua volta, come si sa, è egemonica e sessista”.
E’ vero, con le quotazioni si sgonfiano anche personaggi come Jeff Koons e Julian Schnabel, “un rotondeggiante e presuntuoso pittore che una volta si paragonò a Giotto e Van Gogh”. Ma ciò che resta è solo l’arte delle identità politicamente corrette, “quella che consente il piacere di essere radicali, senza i suoi rischi”.


Good - Piero Golia c'era..., Gianluca Salvati 2012

sabato 2 novembre 2013

Storia di un quadro | Mail art - genesi di una tecnica nomade | Il capo degli spioni in Marocco

La mail art ha rappresentato una valida alternativa alla pittura in Marocco. Non che mi mancassero lo spazio o i mezzi, ma avevo un tempo molto risicato da dedicare all'arte, cosicché iniziai a evitare tutte le procedure laboriose del dipingere, riducendo la pratica al disegno colorato e al collage. Forbici e pennarelli, carta e colla. Una tecnica nomade: economia di mezzi utilizzando uno spazio minimo. 
I commenti di chi riceveva le mie cartoline erano spesso entusiastici: i conoscenti rimanevano di stucco. In realtà ho un'antica passione per la carta e il collage. Questo è uno dei motivi che mi fa amare da sempre i lavori di Matisse. Ma lo spunto per le cartoline delle mail art mi venne da un servizio giornalistico su una mostra di John Lennon tenutasi a Londra anni fa. L'esposizione riguardava le cartoline inviate dall'ex Beatles ai suoi conoscenti, i testi delle cartoline erano vivacizzati da divertenti trovate grafiche o fumettistiche. John Lennon aveva frequentato il liceo artistico in un'epoca di grande creatività. In quegli anni a Londra c'è stata l'esplosione della cultura pop, un'autentica rivoluzione stilistica i cui riflessi si riverberano tutt'oggi. Tra l'altro, la cover di Sgt. Pepper's dei Fab Four è dell'artista Peter Blake, il loro White Album di Richard Hamilton. Oltre ai Beatles anche altre star della musica, come i Rolling Stones e i Sex Pistols, si nutrirono delle immagini create nelle accademie di belle arti: vere e proprie fucine di cultura. 
Le cartoline di John Lennon erano un ottimo esempio di arte formato mini, cosicché cominciai a creare cartoline ex-novo partendo dal cartone grezzo, a differenza dell'autore di Imagine che utilizzava le cartoline comuni. Il tutto andò avanti finché non mi accorsi che le mie mail art non giungevano più a destinazione: dovevano essere incappate in appassionati d'arte durante il percorso... A quel punto smisi con le mail art: lavorare gratis per l'arte va bene, ma lavorare a favore di ignoti, no, proprio non va bene...

ps  dimenticavo di aggiungere che quando lavoravo in Marocco (la scuola era all'interno del Consolato italiano) ho conosciuto i due responsabili dei servizi segreti dell'ambasciata italiana di Rabat. Entrambi mi sono stati casualmente presentati dalla stessa persona, ovvero colui che mi aveva chiamato a lavorare alla scuola italiana di Casablanca: Raffaele Vitalone, direttore con nomina Mae (Ministero degli Affari Esteri) di quella scuola. 
Il responsabile dei servizi segreti dell'ambasciata è uno solo, ed io ho conosciuto sia il signore che ne ha ricoperto l'incarico dal 1995 al dicembre 2003, sia il suo successore, presentatomi dal direttore nel gennaio 2004.

 

domenica 27 ottobre 2013

# L'articolo I # | Carlo Fermi, Max Mauro, Enrico De Simone: La Voce d'Italia, Caracas, giornale fascista con sinistre velleità | Anna Grazia Greco, la fuorilegge

Quando Max Mauro, giornalista de La Voce d'Italia, venne a Caracas nella primavera del 2006, si era messo in testa di scrivere un articolo sulla mia produzione pittorica. Io non ero d'accordo. Per me un articolo era sensato nel caso di una mostra. Altrimenti mi sembrava una cosa a metà. Enrico De Simone concordava con la mia scelta: anche lui aveva preso a cuore le sorti della mia carriera di artista plastico. Al punto che quando ci fu la proroga del Premio Italia, edizione 2006, cui non avevo aderito, Enrico De Simone si sentì in dovere di mettersi nelle orecchie affinché partecipassi anche a quelle selezioni. Dall'idea che mi ero fatto di quel premio, gestito dalla fuorilegge Anna Grazia Greco, era solo tempo perso, non valeva la pena. Ma quando Enrico De Simone, giornalista de La Voce d'Italia, mi disse di riprovare perché era comunque una chance, allora ritentai. A questo servono gli amici. 
Anche se dell'amico in questione mi è rimasta stampata l'espressione di quando gli comunicai che ero stato scartato. Enrico De Simone piegò la testa senza guardarmi, come se avesse detto: "Ben ti sta!". L'amico De Simone, finto chavista e chissà quant'altro... Di certo finto amico.

Enrico De Simone, finto chavista

Tornando a Max Mauro non era del mio stesso avviso e tanto fu soddisfatto quando accettai l'intervista. Una volta avuto l'ok, aveva bisogno di vedere e fotografare i quadri. Concordammo un incontro, dopodiché mi richiamò per aggiungere che sarebbero venuti anche Enrico De Simone e Carlo Fermi, in quanto interessati al mio appartamento: volevano vederlo. 

Quando si presentarono, avevano dato appuntamento a casa mia ad un loro conoscente che tornava da un viaggio fuori Caracas. Dunque ad un certo punto scesi, lasciando a casa Carlo Fermi, Enrico e Max, andai ad attendere il taxi.

Carlo Fermi, imprenditore italiano in Colombia

Il taxi arrivò nel modo più spettacolare e chiassoso possibile. Un vecchio macchinone americano (comune in Venezuela) con un signore di colore che, visibilmente brillo e con una bottiglia in mano per attestarlo, sedeva sul cofano. Quel signore si era gentilmente offerto di indicare la strada e la indicava letteralmente. Nel taxi, oltre all'autista e all'amico degli amici, c'era anche una coppia di stranieri, pare olandesi, che avevano condiviso parte del viaggio con il conoscente dei periodisti

Al momento di rientrare nella villa, il navigatore del taxi si fece avanti per bussare a denaro. Mandai dentro l'ospite e parlai a quattr'occhi con quel signore brillo. Lo ringraziai, innanzitutto, per il suo operato, ma non avrebbe avuto niente. Il signore mi comunicò di essere armato di pistola. Gli risposi che avevo anch'io una pistola. Il finto ubriaco parve soddisfatto. Gli olandesi sembravano molto divertiti. Il tipo risalì sul cofano e partirono così com'erano arrivati, scomparendo chiassosamente dalla mia vista.

Quando salii si sentirono esplosioni di fuochi d'artificio. Qualcuno alla Florida stava festeggiando... Tess, il cane della proprietaria, si andò a nascondere spaventata in un angolo, proprio dove tenevo il portatile (lo stesso da cui sto scrivendo), che per poco non cadde a terra. Lo prese quasi al volo il nuovo arrivato che, devo ammetterlo, era uno a posto.
Mostrai a Max Mauro i quadri. Lui scattò tre foto per l'articolo di giornale. Poi uscimmo.

giovedì 10 ottobre 2013

Enrico Mattei, fondatore dell'Eni e il sogno italiano; di Indro Montanelli

In questi ultimi giorni sono usciti due libri su Enrico Mattei, il fondatore dell'ENI. Uno è un «giallo» che pretende fornire le fila dell'attenta­to di cui egli sarebbe rimasto vittima, e non val la pena parlarne: non perché l'ipotesi sia da scartare a priori, ma perché gli autori non rie­scono a basarla che su congetture e induzioni scopertamente romanzate all'insegna del sensa­zionale. L'altro, no: è un profilo serio e pene­trantissimo, scritto da un inglese che a Mattei fu molto vicino in qualità di consulente: Paul H. Frankel. S'intitola Petrolio e potere («La Nuova Italia» Ed., 175 pagg., L. 1000). E non è soltan­to una biografia; è anche un saggio, asciutto chiarissimo, come solo sanno scriveme gl'inglesi, su tutto il problema delle fonti d'energia. D'altra parte, solo così inquadrato si può capire e va­lutare Mattei. E di capirlo e valutarlo, è ormai tempo.
L'uomo non aveva del resto nulla d'insondabile e misterioso. Come tutti i grandi caratteri, Mattei era un carattere semplice, perfino rozzo.
La cosa che più mi colpì, nell'unico personale contatto ch'ebbi con lui una sera a cena, fu l'in­tensità della sua concentrazione. Parlò di una cosa sola, sempre di quella: ogni volta che cercavo di spostare il discorso su altri fatti e interessi, il suo volto si chiudeva e assumeva l'espressione del sordo.
Frankel dice che, sebbene non avesse mai avu­to nulla a che fare col fascismo, Mattei ne aveva respirato l'aria, come del resto tutti gli uomini della sua generazione. L'idea di un'Italia neglet­ta e defraudata dei suoi diritti a un «posto al so­le» in lui era diventata convinzione profonda forse perché il posto al sole aveva dovuto guadagnarselo egli stesso, figlio di un povero carabinie­re meridionale costretto a lavorare di gomiti per inserirsi nel mondo degli affari lombardo.
Nulla di straordinario in questa vicenda. Mila­no è piena d'immigrati che hanno battuto la stes­sa strada e incontrato le medesime difficoltà; ma che, una volta arrivati, se ne sono gettati dietro le spalle il ricordo. Mattei, no. Anche dopo che vi ebbe raggiunto una posizione di tutto rispetto, per lui Milano rimase sempre «la plutocrazia». Non era invidia: e lo dimostra il fatto che Mattei non fece mai nulla per esservi accolto, anche quando avrebbe potuto farlo da padrone. Mattei non ambì mai agli status symbol della grande borghesia imprenditoriale né mai chiese l'ammis­sione al club. Vedeva veramente in questa categoria l'oppressore privilegiato. Era convinto che in Italia i poveri fossero poveri perché i ricchi ­erano ricchi. E fu per questo che esercitò tanta suggestione anche fuori d'Italia. Quando Mattei diceva ai paesi sottosviluppati che il loro sot­tosviluppo dipendeva dalla rapacità degli sfrut­tatori, non lo diceva soltanto per fare i propri affari. Ci credeva. In lui c'era una componente di messianismo populista. Aveva degli uomini una concezione manichea: di qua i deboli e buo­ni, di là i potenti e cattivi. Ricordo una sua inter­vista in televisione in cui egli parlava dell'ENI come di un disarmato gattino perso nel bosco tra belve rapaci. La menzogna era smaccata e mi fe­ce trasalire d'indignazione: l'ENI in quel mo­mento aveva già zanne e artigli da tigre. Eppure, dopo capii che Mattei era in buona fede e che proprio questa era la sua forza: per diventar il vindice di un sopruso, aveva bisogno di sentirsene la vittima.
Quanto ci sia di favoloso e leggendario in ciò che i suoi agiografi spacciano per biografico, non conta. Conta solo il' fatto ch'egli abbia ispirato favole e leggende. Forse per esempio non è del tutto vero che il suo impero nacque da un gesto di disobbedienza quando, nominato dal governo commissario dell'Azienda Generale Petroli (AGIP) col compito di liquidarla, vi si rifiutò con un'insolente lettera di sfida. Ma è del tutto vero che in quel momento egli non aveva la minima idea di ciò che stava facendo e dove sarebbe an­dato a parare. 

Sogno, elaborazione digitale da un disegno del 2004
Frankel dice che subito dopo la Liberazione, Mattei non aveva affatto deciso su che strada mettersi, ma che caso mai propendeva più per la politica che per gli affari. È probabile. Si era fatto un bel nome nella Resistenza di cui era sta­to il Grande Elemosiniere, era strettamente lega­to ai suoi più prestigiosi capi, e aveva un vasto seguito fra i partigiani. Inoltre, per gli affari, gli mancava il maggiore propellente: la sete di de­naro. Mattei era più ricco prima di creare la sua azienda che durante e dopo. Egli amava solo il potere, e l'amore del potere esclude tutti gli altri.
Ma probabilmente si era già accorto che la politica in Italia non conduce al potere. Conduce solo alla politica, per la quale a lui mancavano non solo le qualità, ma anche i difetti che con­tano ancora di più: era un pessimo oratore e credeva in ciò che faceva con una convinzione e ostinazione che lo rendevano inaccessibile a quel­l'arte del compromesso, di cui la politica ormai non fa più il mezzo, ma il fine. Tuttavia la sua scelta fu solo di strumento, non di obbiettivo. Preferì il petrolio al Parlamento perché pensò che fosse più facile dominare il Parlamento col petrolio che il petrolio col Parlamento.
Del petrolio sapeva ben poco, allora. Sapeva soltanto che le nostre forniture dipendevano da quelle grandi compagnie internazionali in cui egli vedeva la più perfetta e abominevole incarna­zione della «plutocrazia». Frankel dice che non ci fu mai verso di convincerlo ch'esse non forma­vano un vero e proprio «cartello», come lui spregiosamente lo chiamava, cioè un monopolio, e che i loro profitti non erano poi così esosi, come lui valutava. Mattei doveva crederlo perché solo così poteva riuscire a farlo credere ai Paesi pro­duttori. Egli portava nelle sue menzogne una ca­rica di sincerità che le rendeva irresistibili.
Non conosco i capi delle compagnie petrolife­re. Penso che sul piano tecnico e manageriale debbano essere uomini agguerritissimi, rotti a qualunque astuzia, e con un pelo sullo stomaco alto così. Ma sul piano umano la loro ottusità deve toccare livelli da Himalaya, a giudicarne dal modo con cui hanno condotto la lotta contro l'ENI. Essi risero quando Mattei, alla vista delle prime gocce di petrolio portate alla superficie dalle sue sonde in Val Padana, annunciò con la voce rotta dall'emozione che l'Italia aveva trova­to nelle sue viscere la cassaforte di una ricchezza aperta a tutti. Avevano ragione in quanto la cas­saforte non conteneva che quelle poche gocce. Ma non capirono che in un Paese appena reduce dalle mortificazioni della disfatta, più che di pe­trolio, c'era bisogno di fiducia, e che quell'an­nunzio riecheggiante il solito «L'Italia farà da sé», ne ridava. Essi risero quando Mattei si mise a profondere miliardi per costruire le più belle , moderne e lussuose stazioni di servizio con la scritta «Supercortemaggiore, la potente benzina italiana». Avevano ragione perché quella ben­zina italiana era fornita dall'Anglo-lranian in­glese. Ma non capirono che queste ostentazioni affezionavano la pubblica opinione a un'illusione cui non avrebbe mai più rinunziato, dando così a Mattei la forza di tradurla in realtà. Essi credet­tero che Mattei fosse un venditore di tappeti. Sbagliavano. Era un venditore di sogni, merce molto più pericolosa, anche perché facilmente e­sportabile e non soggetta a dogana.

Sogno italiano, Caracas dicembre 2004 - Gianluca Salvati

Nessuno può dire se, nel momento in cui il suo aereo precipitò, egli fosse alla vigilia di una cla­morosa vittoria o di una irreparabile disfatta. Cioè potrebbe dirlo solo il suo successore Cefis, che si rifiuta di parlare. È noto che Cefis, prima stretto collaboratore di Mattei, se n'era poi al­lontanato - e, mi dicono, in malo modo - per dissensi sui criteri di gestione dell'azienda dove rientrò dopo la morte del fondatore. Eppure non ha mai pronunciato che parole di rispetto, quasi di venerazione, nei suoi confronti.
lo credo che Mattei abbia commesso molti sbagli, ma che proprio questi diano la misura dell'uomo. Chiunque altro ne sarebbe stato tra­volto. Lui no, perché era più grosso di essi, un personaggio ibseniano, cui è superfluo cercar di attribuire un'aureola di martire tessendo cattivi romanzi gialli sulla sua fine. Non ne ha bisogno.
I protagonisti, Indro Montanelli - 17 maggio 1970

Morì nel 1962, in un misterioso incidente aereo le cui cause rimasero oscure per moltissimi anni. In seguito a nuove evidenze, nel 2005 fu stabilita la natura dolosa dell'incidente; vennero infatti ritrovati segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull'anello e sull'orologio di Mattei.
tratto da Wikipedia

domenica 29 settembre 2013

In che mondo viviamo: Ong del caffé - L'amico di Carlo Fermi | Enrico De Simone & Piero Armenti

Una sera uscimmo col gruppo di conoscenti di M.
C'era Carlo Fermi e il suo amico, Alessandro, che stava rientrando in Italia. C'era il giovane giornalista Piero Armenti, più guardingo che mai. C'era l'altro giornalista della Voce d'Italia, il romano Enrico De Simone. Del gruppo faceva parte il nostro nuovo collega, un quasi parente di Anna Grazia Greco poi M ed altre persone.


Carlo Fermi, imprenditore italiano a Medellin


Carlo Fermi aveva cominciato da poco a lavorare all'ambasciata italiana. Il suo amico, invece, aveva lavorato per una non meglio precisata Ong che si occupava di caffé e affini. La sigla Ong sta per organizzazione non governativa. Una sigla che è tutto un programma e dovrebbe significare indipendenza rispetto alle politiche economiche delle multinazionali Usa. Una mission delle Ong, ad esempio, è il rispetto dei diritti umani, ma qui siamo ancora nel campo dei buoni propositi, perché nei fatti, l'azione delle Ong, altro non è che finta vigilanza e mutuo consenso alle politiche di rapina adottate da suddette multinazionali. 



Mondo statunitense (cortesemente prelevata dal blog Cosas De Los Gringos)



Va da sé che quel tipo di lavoro sia ammantato da una notevole dose ipocrisia e mistificazione. Per questo è l'ambiente adatto per individui doppi, per venduti e infami di vocazione. Un esempio per tutti, la finta conferenza stampa, seguita a vera espulsione, del finto attivista per i diritti umani, vero agitatore Cia (agit-prop Cia), José Miguel Vivanco, nel settembre del 2008 a Caracas. Notizia prontamente riportata dal periodista di destra, Enrico De Simone.

Ma a quei tempi, nei giorni in cui conobbi la ragazza di Piero Armenti nell'autunno del 2005, Enrico De Simone si faceva passare per chavista, ovvero per socialista tout court. Idem Piero Armenti, anch'egli si professava convinto chavista: lui e la rivoluzione bolivariana erano una cosa sola. Guai a parlar male di Chavez. 


Piero Armenti, quando era chavista - Caracas 2005

Difficile dire che i due giornalisti siano diventati di sinistra in Venezuela, per poi ritornare di destra una volta fuori dal paese. Mi sembra poco probabile, un po' come uno che si riscopra omosessuale a 50 anni... a meno che non abbia vissuto fino ad allora sulle nuvole.

Agustin Codazzi pintado a la Andy Warhol

Dicevo, la posizione dei due periodisti non si capiva, anche perché Caracas ha ospitato le dorate latitanze di diversi fascisti, basti pensare a Stefano Delle Chiaie.
Oppure, per rimanere all'attualità, si pensi all'ex politico DC, poi faccendiere della 'ndrangheta (legato a Marcello Dell'Utri) Aldo Micciché, che abitava proprio lì vicino a Plaza Altamira e, anche lui, come Piero Armenti, al Consolato Generale italiano di Caracas (reame della Anna Grazia Greco) era di casa...
In effetti è molto probabile che il sig. Aldo Micciché e Piero Armenti si siano incontrati e si conoscano: il Consolato Generale italiano di Caracas non è certo il Sambil, ma è soltanto una piccola palazzina di 2 piani. 

Questo inquadra bene dei fatti altrimenti incomprensibili:
  •  il comportamento fuorilegge di Anna Grazia Greco  e consociati, ovvero la Giunta Direttiva del Codazzi con a capo Guido Brigli 
  • l'ostentata negligenza della commissione ministeriale capitanata dal pagliaccio di Stato, Paolo Scartozzoni
Tornando alle convinte asserzioni bolivariane dei due periodisti, altrimenti di destra, io non avevo fedi da ostentare e restavo coerente al mio scetticismo di base, anzi, spesso in classe facevo la parodia del chavismo, ritenendolo puro folklore locale. E credo che se il paese fosse stato governato da quella tremenda dittatura che vedevano molti fascistelli - gente entrata in Venezuela strisciando e in seguito scappata con la coda in mezzo alle gambe - beh, se fosse stato così, immagino che io sarei durato il tempo di un giorno a Caracas. 
E invece sono andato e tornato più volte in Venezuela.  Sempre a testa alta.

La prima parte della serata, ovvero l'incontro con quelli che non conoscevo, era al Sambil. Piero Armenti era in fibrillazione, quella sera stava per presentarci la sua ragazza: una venezuelana niente male.
Dopo le presentazioni andammo in un sushi-bar perché i fighetti del gruppo erano abituati a trattarsi bene. Dopo esserci ingozzati di pesce crudo ci spostammo in un locale dove l'amico di Carlo Fermi, in procinto di lasciare il Venezuela, offrì da bere a tutti. 

Di Carlo Fermi c'era un articolo del gennaio 2009 sulla Voce d'Italia di Caracas, in cui spiegava perché si era trasferito a Caracas e parlava del suo amico, quello che ho conosciuto durante l'uscita dell'ottobre 2005. Curiosamente, dopo pochi anni, l'articolo in questione è rimasto nell'archivio del giornale (dove lavoravano Piero Armenti ed Enrico De Simone), ma è scomparso ogni riferimento a Carlo Fermi e al suo amico che lavorava nell'Ong del caffé. 
Per ritrovare il testo originale bisogna andare sul sito delle autrici (leggi articolo integrale).

Attualmente Carlo Fermi si è trasferito in Colombia, a Medellin, rinomato centro di produzione e smistamento della cocaina, Carlo Fermi però produce pasta alimentare.


domenica 30 giugno 2013

Storia di un quadro | Saggio di pittura anarchica: "Theresè", acrilici su tavola (Piero Golia c'era...)

Dopo aver sperimentato le tavole dell'accademia come supporto alle mie opere, nel lavoro a pastelli, "Bianca", presi a lavorare con la pittura. Il primo dipinto su tavola lo dedicai ad una compagna di corso, molto brava e divertente, con cui mi confrontavo spesso. Questo lavoro, infatti, lo realizzai tra una battuta e l'altra, dato che Teresa era presente quel giorno: mi ero talmente divertito che in seguito non avrei scommesso sul risultato. 
E invece, mostrandolo in giro, il quadro Theresé ha suscitato spesso pareri favorevoli.
Si era nel 1996, dunque era il primo anno che Piero Golia frequentava il corso di nudo, anche se in quel periodo aveva ragionevolmente smesso di disegnare la modella e per lo più e ne andava in giro a parlare con qualcuno e a guardarsi intorno. 
Per questo motivo il quadro Theresé, rientra nella serie: "Piero Golia c'era".  

Theresé - Piero Golia c'era - acrilici su tavola 1996 - Gianluca Salvati

domenica 9 giugno 2013

Piero Golia interpreta un mio quadro | Omaggio al "finto disinvolto", Accademia di Belle Arti di Napoli - 9 giugno 1997

Rispetto al gruppo del corso di disegno, il gruppo cosiddetto degli anarchici, Piero Golia ha sempre fatto categoria a sé, e non perché fosse questo gran genio, al contrario...  
Piero Golia aveva un modo di relazionarsi agli altri piuttosto insolito. Ad esempio arrossiva con estrema facilità e in maniera impressionante: mai visto qualcuno arrossire a quel modo. Piero Golia dava l'idea di non essere mai davvero a proprio agio, anche se le persone che frequentavano il corso erano le più pacifiche di questo mondo. Piero Golia arrossiva e poi, per mascherare il suo imbarazzo, si gettava in performance o battute di dubbio gusto.
Nella foto di questo post, Piero Golia, fumatore compulsivo, si improvvisa performer di un mio lavoro... No comment. 
Omaggio a Piero Golia, il finto disinvolto.  

Piero Golia interpreta un mio quadro

sabato 8 giugno 2013

La galleria Dina Carola e Arcangelo Izzo, critico d'arte | Piero Golia c'era

Nella primavera del 1996, il prof del corso di disegno, mi propose di fare una mostra personale. Qualche tempo dopo, un caro amico mi disse che una galleria di via Orazio, Dina Carola, era in cerca di nuovi artisti. I giorni seguenti andai a fare una visita a quella galleria con un blocchetto di foto dei miei quadri. 
Quando arrivai la gallerista non c'era, aveva avuto un impegno. La sostituiva una signora grassoccia e bionda di mezza età. Ampi quadri slavati alle pareti dovevano interpretare dei nudi di donna, bianco su bianco, nel 1996. La sostituta guardò distrattamente le foto dei miei lavori. Mi chiese se c'erano critici che seguivano il mio lavoro. Alla mia risposta negativa, mi indirizzò ad un critico che abitava a Barra, Arcangelo Izzo. 
Nell'arco di dieci giorni andai a fare visita a quel critico, col solito blocchetto di foto.
Non ho parole per commentare quell'incontro e la valutazione che quell'eminente capoccione fece dei miei lavori. Sembrava che dovessi chiedergli il permesso di esistere, ciononostante ero ancora troppo ben educato per mandarlo a cagare. Così, quel fottuto nano gridò per tutto il tempo e mi rovesciò addosso una valanga di critiche, di cui l'89 per cento, a voler essere ottimisti, erano gratuite e pretestuose.
Prima di andare via, mi ero soffermato su un paesaggio simil-astratto che Arcangelo Izzo aveva nel salotto. Ero piuttosto provato, ma solo perché non capivo. Beninteso: ce ne vuole per abbattermi.

Poche settimane dopo tenni la mia prima personale, il cui bilancio fu assolutamente positivo, sia in termini di vendita che di riscontro critico. Avevo venduto più della metà dei pezzi esposti, in un periodo in cui vendere un solo quadro era considerata una fortuna. I visitatori erano stati dei più vari ed eterogenei, dai prof dell'accademia di belle arti, che per la maggior parte non mi conoscevano, agli studenti. Inutile dire che Piero Golia c'era, aveva visto la mostra assieme ai colleghi del Corso di Nudo.
Quando mi vide Franco Chirico, con quella voce monocorde che sembra provenire direttamente dall'oltretomba, mi disse: "Adesso non ti insuperbire..."
Lo devo ammettere: ero decisamente troppo educato a quei tempi...
Franco Chirico, oltre ad essere il responsabile della comunità dei neocatecumeni di S. Antonio alla Pineta è anche il principale editore di quella setta cattolica dei capitanata da Kiko Arguello, che Franco Chirico conosce personalmente.


La gioia 2, olio su tela 

Ripensando al critico, mi veniva da dire che costui aveva aperto bocca e gli aveva dato fiato... Questa la sintesi dell'incontro con Arcangelo Izzo.

Lo sfondo di Uomo che saluta è ripreso da quel paesaggio semi astratto che vidi nello studio di Arcangelo Izzo. 

mercoledì 5 giugno 2013

Storia di un quadro: "Faces" | Ancona: Cammino neocatecumenale | Franco Chirico, editore, amico di Kiko Arguello

ancona ‹an·có·na› s.f.
~ Tavola dipinta da altare, con inquadratura architettonica terminata in alto a centina o ad angolo acuto, anche a vari scomparti. DIM. anconétta.
ETIMO Dal gr. biz. eikónaimmagine
DATA prima metà sec. XIV.
il Devoto-Oli 2009


Faces, olio su cartone 1997 - Gianluca Salvati


Porto San Giorgio, nei pressi di Ancona, ridente cittadina delle Marche, secondo porto dell'adriatico per importanza, è sede del centro del movimento neocatecumenale (non si finisce mai di imparare)
Il quadro di questo post è stata eposto alla collettiva tenutasi nei locali dell'accademia di belle arti di Napoli. Franco Chirico, capozona della comunità neocatecumenale che frequentano (da circa 20 anni) i miei genitori, nonché principale editore di quella setta catto-talebana e amico personale di Kiko Arguello, Franco Chirico ha visitato quella mostra, acquistandone due quadri. 
Piero Golia, ovviamente, c'era, come si può ben vedere nel post successivo Piero Golia interpreta Gianluca Salvati.  
Piero Golia c'era ed esponeva: il capolavoro in questione era frutto della sua riflessione di artista concettuale di primo pelo. Infatti a quell'epoca, Piero Golia aveva oramai capito che era tempo di accantonare matite e pennelli... 

lunedì 3 giugno 2013

Storia di un quadro: "Bianca", pastelli su tavola 1996 | Gli anarchici del Nudo e Piero Golia

La pittura, come la intendo io, è principalmente materia e stratificazione. In tal modo, anche se la pittura si svolge nello spazio, rende bene sia l'idea del tempo, sia della memoria. Così, nel 1996, cominciai ad interessarmi alle tavole che utilizzavamo per i disegni all'accademia. Queste tavole erano in legno, materiale che risponde benissimo alla pittura materica, inoltre avevano superfici decisamente vissute: segnate dai colori e patinate dal tempo. Il primo lavoro che tirai fuori fu Bianca, uno studio a pastelli della modella.

Piero Golia c'era... era infatti il primo anno che Piero Golia si era aggiunto al gruppo "storico" , ovvero a coloro che lavoravano da qualche anno al corso di nudo dell'accademia di belle arti di Napoli. Quel nucleo era noto ai piani alti dell'accademia, come "gli anarchici"
Così si era definiti dagli studenti e dai prof dei corsi ufficiali: pittura, scultura, decorazione e scenografia. Dal 1994, però, il gruppo degli anarchici aveva cominciato a far parlare di sé, infatti quell'aggregato di personalità e percorsi tanto diversi, me compreso, cominciava a dare i suoi frutti...

Tornando alle tavole, dopo quel primo esperimento a pastelli, cominciai a dargli dentro con la pittura, imbrattando buona parte delle tavole disponibili. 
La pacchia durò finché il prof non mi disse di smetterla. Al che risposi: "Obbedisco!"

Bianca, gessetti su tavola 1996  - Gianluca Salvati



martedì 28 maggio 2013

Quel coniglio bianco di Piero Golia | Franco Chirico & Kiko Arguello

Piero Golia era intenzionato a diventare artista. Nel 1995, Piero Golia si iscrisse al corso di nudo dell'accademia di Belle Arti di Napoli. Dopo aver provato, senza impegno e quindi senza risultati, a disegnare e a dipingere, Piero Golia si convertì in artista concettuale.


concettuale ‹con·cet·tu·à·le› agg. ~ Essenziale, sostanziale, dal punto di vista della compiutezza di idee sul piano logico e pratico: c’è fra le due tesi un’inconciliabilità c. ♦ Diretto alla formulazione di concetti, che si esprime mediante concetti: attività c., conoscenza c.Arte c. (ingl. conceptual art), corrente artistica contemporanea sorta intorno al 1960 che, partendo dal rifiuto della mercificazione dell’oggetto d’arte, pone l’accento sul momento dell’ideazione e progettazione dell’opera e si concentra part. sull’analisi e la sperimentazione dei vari mezzi di comunicazione e di linguaggi diversi, nel tentativo di liberarsi dalla sottomissione ai materiali.
ETIMO Dal lat. mediev. conceptualis, der. di conceptus -us ‘concetto’
DATA prima metà sec. XIX.
 il Devoto-Oli 2009

Il 9 giugno del 1997, Piero Golia, novello artista concettuale, espose un coniglio alla mostra collettiva di fine corso. Ovviamente, essendo frutto di un processo di lunga elaborazione, la sua opera prima non consisteva in un semplice coniglio, bensì in un coniglio bianco sistemato all'interno di una gabbietta.

coniglio ‹co·nì·glio› s.m. (f. -a; pl.m. -gli)  1. Mammifero Lagomorfo dei Leporidi intensamente allevato a scopo alimentare e per l’utilizzazione del pelo e della pelliccia; deriva dal coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus), a differenza del quale ha orecchie e arti più corti, mole più grossa, pelame più morbido e fitto, variamente colorato, carne più dolce e delicata ♦ La carne dell’animale macellato: c. alla cacciatora.
2. fig. Simbolo di timidezza e timore, di pavidità e viltà: ha un cuore di c. • DIM. conigliétto (v.), poco com. coniglìno, tosc. conìgliolo, poco com. conigliòtto. ACCR. coniglióne. PEGG. conigliàccio nel sign. 2.
ETIMO Lat. cunicŭlum
DATA sec. XII.
 il Devoto-Oli 2009

Il colpo di genio di Piero Golia si manifestò nell'applicazione di due altoparlanti vicino alla gabbietta del coniglio.

altoparlante ‹al·to·par·làn·te› s.m. ~ Apparecchio che amplifica i suoni trasformando l’energia di correnti elettriche modulate a frequenza acustica in energia meccanica di vibrazione. • DIM. altoparlantìno.
ETIMO Comp. di alto e parlante
DATA 1927.
 il Devoto-Oli 2009

Dagli altoparlanti scaturiva la voce registrata di Piero Golia, il quale, parlando al posto del coniglio bianco, chiedeva in tono concitato di farlo uscire da lì. Il coniglio, in compenso, non faceva una grinza e se ne stava lì dentro tranquillo nonostante il viavai di gente e il gracchiare degli amplificatori. La spiegazione colta di questo eccellente lavoro di Piero Golia era che il neo-artista concettuale viveva una condizione esistenziale simile a quella della sua creazione. Piero Golia si identificava totalmente in quel coniglio (e in tutto il resto), dimostrando con la sua opera prima una compiuta visione wagneriana. L'opera d'arte totale.

Franco Chirico, altro eminente personaggio, già editore della setta catto-talebana dei catecumeni e amico personale di Kiko Arguello (leader e santino ante litteram della suddetta setta), Franco Chirico ha visitato quella collettiva ed ha, verosimilmente rimirato le pirotecniche invenzioni di Piero Golia. Un uomo, un artista concettuale. 

Politica e mafia | Enrico De Nicola & don Gennaro Aliberti | Mail art: "Cativo! Cativo!"

Gennaro Aliberti era un uomo politico campano, originario di Pontecagnano nel salernitano, operava agli inizi del novecento nel napoletano.
L'onorevole Gennaro Aliberti, tra i suoi interessi, vantava amicizie con noti personaggi della camorra locale (criminalità organizzata napoletana). Inoltre aveva molteplici interessi imprenditoriali: era il referente occulto, ma nemmeno tanto, del gioco del lotto clandestino. 
Don Gennarino, insomma, è stato un precursore, un pioniere di quella nuova tassa sulla povertà rappresentata dal gioco d'azzardo in tutte le sue forme: dal gratta e perdi ai videopoker... Dicevo che 'on Gennaro è stato l'avanguardia, la punta di diamante di questo nuovo furto legalizzato che oggi è promosso direttamente dallo Stato (le mafie ringraziano). Eppure, ai suoi tempi, c'era chi parlava male di Gennaro Aliberti; certamente si trattava di persone ignoranti, mosse unicamente da invidia per cotanto brillante spirito imprenditoriale e riconoscimento sociale. Gente che non comprendeva la portata storica di un nuovo modo (molto antico nella sostanza) di intendere l'impegno politico. 
Quel Gennaro Aliberti era un uomo che sapeva fare politica con la p maiuscola...  C'erano persone che osavano scrivere cose indicibili (ma vere) sul conto di Gennarino Aliberti... Fortunatamente, il giovane avvocato Enrico De Nicola, uomo integro e tutto d'un pezzo, si rifiutò di difendere colui che aveva scritto delle infamità (provate) su Gennaro Aliberti. 
In seguito è stato scritto che Gennaro Aliberti era una "fogna che va murata": quanta inutile cattiveria nei suoi confronti. Lo Stato oggi dovrebbe rimediare a questa ingiustizia nei confronti di 'on Gennarino Aliberti, dovrebbe fargli un monumento, a quella merda.

Cativo! Cativo!  mail art - Gianluca Salvati

lunedì 27 maggio 2013

Piero Golia, collettiva del corso di nudo | Leonardo da Vinci: Trattato di pittura - Il disegno

Piero Golia, Accademia di Belle Arti di Napoli, 1997

CHE si deve imparare prima la diligenza che la presta pratica. Quando tu, disegnatore, vorrai far buono ed utile studio, usa nel tuo disegnare di far adagio, e giudicare fra i lumi quali e quanti tengano il primo grado di chiarezza, e similmente infra le ombre quali sieno quelle che sono più scure che le altre, ed in che modo si mischino insieme, e le quantità; e paragonare l'una coll'altra, ed i lineamenti a che parte si drizzino, e nelle linee quanta parte di esse si torce per l'uno o per l'altro verso, e dove è più o meno evidente, e così larga o sottile; ed in ultimo che le tue ombre e lumi sieno uniti senza tratti o segni ad uso di fumo. E quando tu avrai fatto la mano e il giudizio a questa diligenza, verratti fatta tanto presto la pratica che tu non te ne avvedrai.
Trattato di pittura, Leonardo da Vinci

QUANDO ho conosciuto Piero Golia, nel settembre del 1995, l'aspirante artista stava sostenendo l'esame di disegno per accedere al corso del Libero Nudo dell'accademia di Napoli. Come livello qualitativo Piero Golia era poco sotto lo zero, ma ciò non rappresentava un problema. Il disegno è una tecnica che può apprendere chiunque, a prescindere dal talento: io per primo mi credevo negato nel disegno, ma poi sono riuscito ad apprenderne i rudimenti. L'unico modo per procedere e migliorarsi è il lavoro costante, come ben sapeva il Maestro, Leonardo da Vinci. Questa è la regola.
Ora, Piero Golia, rappresenta un'eccezione (ma che eccezione), rispetto alla regola. Non perché sia completamente negato, dato che il talento non è necessario nell'apprendere la tecnica, ma perché Piero Golia era talmente refrattario al tipo d'impegno richiesto, da non provarci neanche.
Il comportamento di Piero Golia era, a dir  poco, insolito: se sei iscritto all'università, si spera per tua scelta, sai che ti devi impegnare altrimenti non ti laurei. Si può ammettere che qualche materia risulti più ostica, per cui venga meno la motivazione allo studio. Ma non si capisce perché ci si iscriva ad un corso che non rilascia niente, se poi non si ha voglia di lavorare... 
Un bel mistero. Ma Piero Golia non ne faceva un dramma: ha continuato a frequentare il corso di nudo, mentre il suo livello qualitativo restava sempre lo stesso, poco sotto lo zero. 
Dopo due anni, però, Piero Golia ha avuto una grande evoluzione: è divenuto artista concettuale..

sabato 25 maggio 2013

Il tabù | Una lettera dell'avv. Enrico De Nicola - Primo Presidente della Repubblica

L’egregio avvocato De Nicola, ribadisce, con la lettera che pubblichiamo, una notizia data due numeri fa, riguardante un noto galeotto assoldato dalle gentildonne e dai gentiluomini colpiti dall’inchiesta e da d. Tommasò dell’Immobiliare.
Napoli, 29 gennaio del 1902

Spettabile Redazione della “Propaganda”
Il Vostro giornale ha fedelmente riportato ciò che, per confusione nei ricordi o nella narrazione, gli era stato riferito relativamente ad un invito da me ricevuto per assumere la difesa del direttore di un foglio ebdomadario contro il quale sono state sporte varie querele per diffamazione.
Ciò nei rapporti della Propaganda.
Per quanto riguarda la mia persona posso affermare con precisione irrecusabile che parecchi giorni or sono un mio carissimo amico mi annunziò di aver ricevuto una visita di quel signore, il quale gli aveva manifestato l’idea di rivolgersi a me o ad un valoroso collega, di cui fece anche il nome, per il patrocinio delle sue ragioni.  All’amico che mi dava simile preavviso con l’aggiunta di aver consigliato il mio fra i due nomi indicati, risposi meravigliandomi altamente che potesse venire a casa mia il direttore di quel foglio per invitarmi ad assumere la sua difesa.
Infatti, egli è stato querelato per una campagna, che io – giudice sereno perché lontano dalle lotte partigiane della mia città – reputo perfino inverosimile nella sua enormità, iniziata o contro amici carissimi come Pietro Pansini, Carlo Altobelli, Roberto Marvasi, Alfredo Sandulli, Arturo Labriola, cui mi avvincono non soltanto sentimenti di stima sincera, ma nodi indissolubili di affetto fraterno – o contro altri come il Lucci, il Leone ecc., che non conosco ma che, giovane anche io, altamente ammiro per lo spirito pugnace e l’ideale che li agita. E tale risposta avrei dato al direttore di quel giornale se fosse venuto a casa mia, come aveva preannunziato.
Esposto così l’incidente nei più esatti particolari, dichiaro chiusa, per conto mio, ogni ulteriore polemica, porgendo a voi, onorevole redazione, i sensi della mia osservanza.
Avv. Enrico De Nicola
 
Abbiamo pubblicato con piacere questa lettera del De Nicola, noi che già fedelmente pubblicammo quanto egli ebbe a dire a un nostro amico.
E ci gode l’animo di aggiungere a titolo di lode del giovane avvocato, che egli, in pubblico tribunale, ha a tal proposito aggiunto: “Un avvocato che si rispetta non accetta certe cause!”. Ma se lo dicevamo noi! Colui sarà difeso da un ruffiano!

sabato 23 febbraio 2013

Norberto Bobbio, di Giovanni Spadolini: Gli uomini che fecero l'Italia


GIOVANNI SPADOLINI ebbe in mente sin da quando era adolescente un libro “leggibile e non esclusivamente accademico” che servisse da “guida dei protagonisti del riscatto nazionale”. Lo compose a poco a poco lungo gli anni, aggiungendo a ogni nuova edizione altri ritratti. I primi erano già apparsi nel volume Autunno del Risorgimento (1971); i successivi, più numerosi, furono aggiunti nella prima edizione di questo libro, in due volumi, il primo dedicato all'Ottocento, il secondo al Novecento, usciti nel 1972. L'ultima edizione in un solo volume, sottotitolata La storia di una nazione attraverso i ritratti di 112 protagonisti, e indicata come definitiva, è apparsa nella primavera del 1993. Un'opera, come lo stesso Spadolini l'ha definita, “per tanti aspetti conclusiva delle mie ultraquarantennali ricerche sull'idea dell'Italia e sulla storia d'Italia”.
“Definitiva” l'ultima edizione, in quanto la galleria dei ritratti era da considerarsi compiuta, ma nello stesso tempo anche opera “aperta”, anzi “infinita”, perché in una concezione liberale della storia, ispirata alla “religione della libertà e del dubbio”, nessuna opera umana è mai compiuta. Soprattutto per chi è chiamato a riflettere sulla storia d'Italia, di cui nell'ultimo suo discorso pronunziato in Senato, poco prima della morte, disse che è “la storia di una nazione che si è costruita gradualmente in base ad un'identità di lingua e di cultura, che ha preceduto di secoli la formazione dello Stato, in un processo che appare miracoloso, ma che in realtà è stato faticoso, contraddittorio, spesso paradossale, pieno di sacrifici, in gran parte deludente (Risorgimento senza eroi, come avrebbe detto il nostro Gobetti)”.

A Gobetti, alla visione storica e politica dell'autore di Risorgimento senza eroi, Spadolini cominciò ad accostarsi sin dai precocissimi passi compiuti nell'apprendimento del mestiere di storico. Nell'ultima prefazione di questo libro, datata marzo 1993, attribuisce all'insegnamento gobettiano l'inclinazione “a tutto rivedere, a tutto ripensare, a tutto ridiscutere, senza l'aiuto di alcuna liturgia, senza lo scenario di alcuna terra promessa”. Scrive ancora in Gobetti. Un'idea dell'Italia che non c'era nel giovane scrittore un uso del termine liberale nel senso opposto alla convenzione e alla tradizione e la sua era una rivoluzione liberale che non essendoci mai stata nel nostro Paese doveva essere proiettata verso il futuro. Ancora una citazione: “Contro tutti i compromessi tradizionali della storia italiana... Gobetti richiamò al coraggio dei propri ideali, all'assunzione delle proprie responsabilità e dell'eroismo del proprio impegno”. Visione liberale, laica e, come avrebbe aggiunto Montale, “tragica” della nostra storia. Era questo senso tragico della storia che distingueva Gobetti dai cattolici e dai comunisti: “La sua modernità – così ancora Spadolini – consiste in un principio di eresia permanente, di non conformismo e di antidogmatismo, contro ogni concezione totalizzante, contro ogni residuo fideista”.



Norberto Bobbio, Gli uomini che fecero l'Italia di Giovanni Spadolini

Norberto Bobbio

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Gianluca Salvati - Lotta di cani

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