Uomo che saluta - olio su tela 1996

Uomo che saluta - olio su tela 1996
Esposto nel 1997 (c'era quel coniglio di Piero Golia) - coll. Franco Chirico

Saul Bellow 1997: funzione dell'arte

Io non propongo assolutamente niente. Il mio unico compito è descrivere. I problemi sollevati sono di ordine psicologico, religioso e - pesantemente - politico. Se noi non fossimo un pubblico mediatico governato da politici mediatici, il volume della distrazione forse potrebbe in qualche modo diminuire. Non spetta a scrittori o pittori salvare la civiltà, ed è uno sciocco errore il supporre che essi possano o debbano fare alcunché di diverso da ciò che riesce loro meglio di ogni altra cosa. […] Lo scrittore non può fermare nel cielo il sole della distrazione, né dividere i suoi mari, né colpire la roccia finché ne zampilli acqua. Può però, in determinati casi, interporsi tra i folli distratti e le loro distrazioni, e può farlo spalancando un altro mondo davanti ai loro occhi; perché compito dell’arte è la creazione di un nuovo mondo.
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sabato 26 novembre 2016

La tipa di Piero Armenti e Plaza Venezuela

Plaza Venezuela è la piazza dove comincia, per chi proviene da est, il corso di Sabana Grande.
Questa piazza era il ritrovo principale per la comitiva de los hermanitos nei primi anni del duemila; a quei tempi la loro comitiva era piuttosto grande.

La compagnia de los hermanitos annoverava un po' di gente che si riconosceva sotto la sigla di dark o gotico. con annesso armamentario pseudo culturale, che spaziava dai miti nordici, alla predilezione per il nero nell'abbigliamento fino all'ascolto di musica come l'heavy metal. 
Le loro convinzioni, inoltre, rispondevano ad un'ideologia di tipo razzista.
Un giorno, due estranei provarono a derubare alla comitiva de los hermanitos, o almeno così recitava la versione ufficiale del gruppo. Los hermanitos risposero con una violenza inusitata, addirittura ammazzando uno di essi con una coltellata in un occhio. Va da sé che per il tipo di colpo inferto non ci fossero dubbi sulla volontà di chi lo sferrò. 
Trovai eccessiva quella reazione a fronte di un furto. E azzardata l'ipotesi di un furto in un gruppo così grande e così mal frequentato. Nel complesso, quando appresi questa storia, mi parve esagerata anche per una città che il luogo comune vuole tra le più violente al mondo.
Dopo il fatto, la polizia aprì un'inchiesta, cosicché la comitiva de los hermanitos si mise in sonno, disperdendosi in altri luoghi di Caracas.
Non è mai stato trovato il responsabile di quell'omicidio.



La ragazza di Piero Armenti e alcuni hermanitos

domenica 8 marzo 2015

Lucia Veronesi, una leonessa a Caracas

La preside della scuola Agustin Codazzi di Caracas, Lucia Veronesi, è stata una delle persone più coraggiose che abbia mai conosciuto.
Ancora oggi non mi capacito delle sue doti di combattente e di quanto fosse indomito il suo animo.
Come tutte le persone di carattere non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare ed i suoi modi erano sempre improntati a franchezza e cordialità.
Nei giorni in cui l'ho conosciuta, a fine settembre 2004, era già malata e sotto cura chemioterapica, ciononostante ha saputo tenere testa al periodo di mala gestione di Anna Grazia Greco, una fuorilegge patentata, e ai tanti danni che avrebbe potuto fare.
Ricordo il primo scambio di opinioni che ebbi con Lucia Veronesi, in merito ad un bambino un po' discolo. Lei mi disse che dovevo essere come una mamma... Le risposi che, casomai, potevo essere come un papà, aggiungendo che i ruoli non erano poi così uguali...
La preside dribblò la mia affermazione e prese a parlare di quando insegnava lei.

Ogni volta che penso a quello scambio, mi convinco che Lucia Veronesi stava prendendo informazioni, nel senso che non aveva proprio idea di chi si trovasse di fronte. Non che fosse prevenuta, ma era poco o niente informata (le truffe funzionano meglio quando le persone vengono tenute all'oscuro). Il mio arrivo alla scuola di Caracas, infatti, fu deciso dalla Greco, che mi chiamò dall'Italia con un cellulare italiano (provvisto di scheda Tim).
Ad un certo punto ero venuto a sapere che il mio curriculum vitae, stranamente, non era giunto a chi di dovere, ovvero alla preside e alla coordinatrice. 

(Eppure allegavo sempre il curriculum alle domande che presentavo, anzi, non era neanche un file allegato, bensì presente nella stessa pagina della messa a disposizione. In tal modo, cambiando l'indirizzo email e il nominativo dell'istituzione scolastica, potevo inviare la stessa domanda a tutte le scuole, risparmiando molto tempo...)
 Cosicché dopo circa un mese dal mio arrivo a Caracas, stampai il mio curriculum vitae e lo consegnai personalmente alle interessate.

Lucia Veronesi non era informata sui giochetti della Greco, ma aveva gli strumenti per valutare situazioni e persone. Per questo è riuscita a spiazzarmi non una, ma diverse volte...
Quando immagino all'attività di intelligence, non penso agli squallidi spioni della Greco, ma ricordo la lucida intelligenza della preside Lucia Veronesi. Intelligenza col sorriso. 
Al contrario, quella col marchio Anna Grazia Greco e consociati (ovvero cricca Codazzi e corte de' miracoli) tutto poteva essere fuorché intelligence: il suo nome è infamità, l'arma dei vigliacchi... 
Fossi stato meno ingenuo, gli avrei insegnato a campare a quella gente. 
In seguito ho appreso che la difficoltà principale nel capire certi giochi sporchi consiste semplicemente nel fatto che ci si rifiuta di riconoscere ciò che non si farebbe al proprio prossimo, ovvero, per dirla con Kant, per chi tratta i propri simili (e non solo) come fine e non come mezzo.

Lucia Veronesi, una leonessa a Caracas

domenica 30 novembre 2014

Arte contemporanea: Human, collage | Quattro ballate gialle, Federico Garcia Lorca


 IV  Sopra il cielo delle margherite cammino

Stasera immagino
d'essere santo.
Mi posero la luna
in mano.
Io la riposi
negli spazi
e il Signore mi premiò
con la rosa e il nimbo.

Sopra il cielo
delle margherite cammino.

Ed ora me ne vado
per questi campi
a liberare le ragazze
dai cattivi innamorati
e a regalar monete d'oro
a tutti i bambini.

Sopra il cielo
delle margherite cammino.

                                       Federico Garcia Lorca


Human, collage su carta - Gianluca Salvati 2004


sabato 28 giugno 2014

Il rientro a scuola | Piero Armenti: "Uccidetelo!" - Caracas, gennaio 2005

Quando rientrai a  scuola dopo l’avvelenamento, le vacanze natalizie erano terminate da qualche giorno. Ero debole e bianco come un lenzuolo. Un fantasma mi faceva un baffo. L’idea di riprendere a lavorare non mi allettava: l’insegnamento richiede un costante impegno e io non mi sentivo in forma. Nonostante la debolezza, però, miei alunni si comportarono bene. Era una seconda elementare ma di fatto si mostrarono comprensivi e non approfittarono della situazione. 
Detto ciò, c’era comunque uno strano silenzio nella scuola in quel periodo, come un senso di attonimento generale, e non solo nella mia classe.
La vita fuori scorreva come sempre, in Venezuela, in Italia e nel mondo succedevano cose.
A fine mese, il mitico Chavez rilasciava un’intervista in cui affermava che il socialismo non era morto. L’ho scoperta da poco, spulciando quell’interessantissimo archivio che è la versione digitale del quotidiano fascista de La Voce d’Italia. Archivio che è cominciato nel maggio del 2004, quando Piero Armenti ha cominciato a lavorare presso La Voce d'Italia e si è interrotto quando Piero Armenti è rientrato in Italia nell'autunno del 2008. In quella stessa data sono rientrati, direi con una certa fretta, sia Enrico De Simone che Daniela Corrieri, due romani alla corte della Greco (Anna Grazia, una fuorilegge a Caracas). Ed è piuttosto curioso che Enrico e Daniela siano ritornati in Italia a scuola appena cominciata. Entrambi lavoravano infatti alla scuola italiana Bolivar y Garibaldi di Caracas,
Tornando al gennaio 2005, qualche giorno dopo, ai primi di febbraio, Piero Armenti, apprendista periodista presso il suddetto giornale fascista, licenziava un articolo dal titolo “Uccidetelo!”. 
Non ricordo se l’avesse scritto sul quotidiano fascista per il quale lavorava o su uno dei tanti blog fascisti su cui ha scribacchiato in quel periodo,  poiché da un po’ di tempo quel bell’articolo, tanto esplicativo del personaggio che allora si faceva passare per chavista, è stato spurgato da internet... 
Non ricordo un titolo più stizzito di quello. Piero Armenti, ovviamente, parlava di Chavéz, ovvero di un non meglio identificato esule politico venezuelano che da Miami, Florida, pontificava in questi termini: “...l’unica soluzione per il problema Chavéz è una carabina da...” e  giù a descrivere dettagliatamente il tipo di fucile più idoneo per l’assassinio appena auspicato.
Bisogna dirlo, un articolo dal grande tenore politico, con un vastissimo orizzonte culturale... mi rammarico di non averlo salvato, oggi potrei riproporlo per la gloria del giornalista salernitano.
Di lì a poco moriva assassinato un connazionale a Caracas.


Cow boy, pennarello su carta stampata - Gianluca Salvati 2013


venerdì 27 giugno 2014

Caracas, dicembre 2004: l'avvelenamento | La famiglia di Franco Chirico

Il 27 settembre 2004 cominciai ad insegnare alla scuola italo-venezuelana "Agustin Codazzi" di Caracas.
Dopo un mese di insegnamento, percepii il primo stipendio, pur non avendo alcun contratto di lavoro. L'unico contratto che avevo, in una lingua che non conoscevo ancora, era quello con l'azienda sanitaria privata, la Sanitas. Questo contratto assicurativo in lingua spagnola sembrerebbe un dettaglio, ma, col senno di poi, ho capito che era un aspetto tutt'altro che trascurabile. Dopo Natale, infatti, fui vittima di un avvelenamento che mi ha quasi ammazzato: in quell'occasione non ebbi modo di chiedere soccorso perché la procedura era complicata e io non ero in grado di decifrarla nell'idioma, lo spagnolo, che ancora non conoscevo. Eppure, nelle telefonate fatte prima di partire, avevo messo al corrente la. dott.ssa Greco del fatto che non conoscessi lo spagnolo. Lei mi aveva risposto che era una lingua facile da imparare... Quando ebbi l'avvelenamento il collega con cui condividevo l'appartamento si trovava fuori città, a Merida, dalla sua fidanzata. Mi telefonò il capodanno per farmi gli auguri, e, nonostante l'avessi messo al corrente delle mie condizioni di salute, non si preoccupò di informare nessuno dei colleghi presenti a Caracas. Mi disse che non poteva fare gran ché da laggiù.

Caracas, dicembre 04
Il collega ritornò il 4 gennaio mattina. Lui e la sua fidanzata entrarono in casa silenziosamente. Io ero sveglio ma non parlai, aspettai che si affacciassero alla mia camera. Ricordo ancora la sua espressione nel rivedermi. Sembrò deluso e abbattuto, abbassò la testa e rivolto alla fidanzata disse che chiamava il pronto soccorso della Sanitas.

Quando la dottoressa e il suo assistente mi videro, sembrarono alquanto meravigliati di trovarmi vivo: mi trattarono come se la mia vita fosse appesa ad un filo. Mi prescrissero diversi medicinali e una serie di analisi. 


Prescrizione Sanitas

Il giorno seguente mi alzai e scesi di casa diretto alla clinica per le analisi.  
Il tassista non mi portò in una struttura Sanitas, bensì in un'altra clinica poco distante dal quartiere dove abitavo. Per me andava bene lo stesso, una clinica vale l'altra. (In realtà l'informazione era molto precisa: Clinica Sanitas di Plaza Altamira, era impossibile sbagliarsi, cosicché sono certo che il tassista mi abbia portato di proposito in un'altra clinica).
Tornato l'indomani per ritirare i risultati dei prelievi, fui spettatore di una strana rappresentazione: due infermiere discutevano sommessamente. L'argomento erano le mie analisi. Ad un certo punto capii ciò che dicevano: una disse all'altra che non era compito suo preoccuparsi del contenuto di quegli esami: doveva consegnarmeli e basta. 
Eppure mi davano l'idea di essere entrambe molto comprese rispetto al mio "accidente" e che stessero cercando di comunicarmi qualcosa in più oltre a quello che dicevano. 


Risultati alla mano, telefonai al centralino della Sanitas per parlare con la dottoressa che mi aveva visitato, dato che eravamo rimasti così. La dottoressa mi chiese i livelli di alcune voci delle analisi ed ebbe una reazione emotiva quando glieli comunicai. Mi chiese di ripetere il risultato di un parametro in particolare. Dal tono, di voce sembrava che stesse per piangere. Come se stentasse a credere a ciò che le comunicavo. Poi, di punto in bianco, la linea venne interrotta dalla voce di un uomo, il quale mi diceva che non potevo più parlare con la dottoressa perché era impegnata. Dovevo rivolgermi direttamente ad una struttura Sanitas.

Così feci, nonostante il mio aspetto e l'estrema debolezza. Il collega neanche stavolta si offrì di accompagnarmi ed io gli evitai la molestia di chiederglielo. Alla clinica "La Floresta" di Plaza Altamira (quartiere Chacao), provai a spiegare cosa dovevo fare ma non mi riuscì molto bene. Ad ogni modo mi fermai lì, in una delle sale d'attesa del piano inferiore della struttura, dove si facevano le analisi. Ad un certo punto un'assistente si offrì di mostrare le mie analisi ad un dottore internista. Così mi disse.

Quando ritornò, mi comunicò con un gran sorriso, che avevo avuto un dengue emorragico. Ebbi un certo sollievo a quest'affermazione, non so se perché si capiva che ero fuori pericolo, o perché, date le sue cause, non c'era dolo: il dengue infatti viene trasmesso da una zanzara e a me le zanzare mi adorano. 
Ai primi sintomi, invece, avevo pensato ad un avvelenamento, causato dal prosciutto cotto lasciato in frigo dal collega. Inutile dire che quando ho studiato i sintomi del dengue emorragico, ho riscontrato che non avevano alcuna attinenza con i sintomi da me riscontrati in quei giorni.

 Mentre allora presi per buona quella interpretazione detta per sviarmi, nonostante nei giorni successivi, alcune colleghe mi avessero invitato a sottopormi a una vera visita. Io ero dell'avviso di dimenticare quella vicenda quanto prima e preferii non indagare. Né lo comunicai ai miei familiari per non farli stare in pena.

Dimenticavo di dire che, pur avendo il numero della famiglia di Franco Chirico, che abitava a due passi da me (ma l'ho scoperto solo nel 2008), non mi ha neanche sfiorato il pensiero di telefonarli in quei giorni: sono certo che in tal caso le mie poche chance di sopravvivenza si sarebbero ridotte a zero... 

giovedì 12 giugno 2014

La ragazza di Piero Armenti e il disegno a linea continua | L'artista di Bellas Artes

Tra i miei luoghi preferiti a Caracas, c'era la zona di Bellas Artes, coi suoi musei (gratuiti), mercatini di artigianato e un parco verde abbastanza grande e ben tenuto. Quando cominciai a frequentare la ragazza di Piero Armenti, capitava spesso che ci incontrassimo a Bellas Artes. Un pomeriggio eravamo seduti ai tavolini di un bar nei pressi della fermata di Bellas Artes della metro, quando ci avvicinò una signora che lei conosceva e ci propose un ritratto a linea continua. La ragazza di Piero Armenti disse che andava bene, così la signora, che per me era una ragazza, andò a procurarsi un foglio.

Venne e prese a disegnare con una biro verde, senza staccare la punta dal foglio. 



Disegno a linea continua con la ragazza di Piero Armenti, Caracas 2006

Prima disegnò la mia testa, una montagna, poteva essere il monte Avila, che sovrasta Caracas. Poi disegnò lei in lontananza, i suoi capelli diventavano uccelli e poi mare e  palme. Il paesaggio tropicale con noi due.

C'era inoltre un altro occhio sopra le rocce dell'Avila, che in un primo momento avevo interpretato in chiave cubista, come il mio stesso occhio visto di fronte; invece è l'occhio di qualcuno che si nasconde o guarda da lontano. Ed è un occhio chiaro, ceruleo.

Se dovessi dire a chi appartiene quell'occhio, nella ristretta cerchia di persone che frequentavo a Caracas, credo che sceglierei proprio Piero Armenti.
Ma era questo il messaggio di quel disegno a linea continua?  Vediamo... 

Dal nome latino Petrus, tratto a sua volta dal greco Petros, col significato di pietra (dal termine petra, comune a entrambe le lingue). Il nome greco, dal canto suo, è la traduzione dell'aramaico Kephas, che, tratto dal termine kefa, significa per l'appunto pietra, roccia. È quindi analogo per semantica al prenome Sten.
Questo nome, storicamente, affonda le sue radici nel Cristianesimo e in particolar modo nel culto di San Pietro, ritenuto essere il primo papa dalla Chiesa cattolica. Proprio a lui si lega l'origine del nome Pietro, che, come sostenuto dagli apostoli Matteo e Giovanni, venne così chiamato dallo stesso Gesù Cristo: celebre è il passo del Vangelo di Matteo in cui Gesù dice a Pietro "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa".
A proposito delle varianti del nome, Piero e Piera si sono già formati a partire dal Medioevo (vedi Piero). Le forme Petro e Petra, invece, sono in parte dovute all'influenza del latino ecclesiastico, soprattutto nel Meridione. La forma femminile Pietra può derivare dalla devozione per "Maria Santissima della Pietra", patrona di Chiaravalle Centrale.
 


Sembrerebbe proprio di si: quell'artista di strada mi stava dicendo, tramite quella sorta di rebus a linea continua, che la ragazza che stavo frequentando era un'esca per tenermi sotto controllo.

Quando ebbe terminato, la ragazza di Piero Armenti la pagò, direi piuttosto bene, e fu anche molto gentile con l'artista di strada. Quando la signora andò via, lei mi raccontò la sua storia. Era un'artista di strada in quanto viveva per strada ed era malata: aveva un tumore all'orecchio, quando ci aveva avvicinato aveva parlato di comprare delle medicine. 
Alla fine lei concluse che il disegno dovevo tenerlo io. E così fu. 
Ma non credevo che un disegno potesse essere così importante.
Di lì a un mese, la ragazza di Piero Armenti mi riportò la notizia della morte di quella signora che in realtà era ancora una ragazza. Non credo avesse più di 30 anni.
Poco tempo dopo, "il mago", un suo conoscente, amico di Piero Armenti, fece girare voce che voleva le foto dei suoi disegni, per farne un non meglio precisato "archivio". 
Anche il nostro ritratto a linea continua, era sottinteso. La riproduzione non l'ha mai vista, almeno fino ad oggi...

mercoledì 11 giugno 2014

# L’articolo - p. II # | Enrico De Simone, Carlo Fermi e Max Mauro - La Voce d'Italia, Caracas: giornale fascista con velleità sinistroidi

Andammo alla pizzeria Nonna bella di Chacaito e ordinammo delle pizze.

Scendendo da via Nivaldo, nei pressi della mia abitazione, incrociammo un tipo semi alcolizzato che nei primi tempi aveva provato a spillarmi dei soldi. Fino al giorno che,  avendomi chiesto di tenergli della refurtiva in casa, lo misi a posto una volta per tutte. Anche se quello era un quartiere residenziale, infatti, confinava con la favela, che in Venezuela si chiama rancho. La qual cosa non mi scandalizzava: mi sono sempre piaciuti i luoghi popolari. Ma quando raccontai ai compaesani la storia di quel tipo, loro si galvanizzarono, fu il tema della serata in pizzeria.

Max Mauro era in Venezuela da poco ed era stato alloggiato dal responsabile del giornale fascista per cui lavorava (La Voce d’Italia) in un albergo mal frequentato, raggiungerlo di sera a piedi voleva dire esporsi a rapina certa, dato che si trovava in una zona della città completamente al buio. Neanche fosse stata la bocca dell’inferno.

Max ci raccontò di alcuni personaggi equivoci che risiedevano nel suo hotel. Carlo Fermi scriveva messaggini a ruota.

L’altro argomento della sera, neanche a dirlo, furono i miei quadri. Le prime osservazioni partirono da Carlo Fermi, il quale quella sera era lì per puro caso: per vedere la casa dove vivevo... A seguire attaccò Enrico De Simone che, anche quella sera, mi pareva il suo fido cagnolino da compagnia.

In sostanza i due compari mettevano in dubbio l’autenticità della mia produzione pittorica. 



Da non credere, quei due vermi, due venduti agli ordini di chissà chi, che davano del veniale a me. Sembrava il colmo dei colmi. Ed erano lì per puro caso. O almeno questa era la loro versione.

Alla fine della pizza e delle chiacchiere, Carlo Fermi tirò le fila della forbita conversazione: dato che io ero forte e non avevo paura, avrei accompagnato Max al suo albergo che non era molto distante dalla piazza. Poi sarei tornato col taxi. 
Lui intanto andava, perché aveva un impegno: era un uomo di mondo, aveva studiato alla Bocconi per fare simili ragionamenti... (pochi anni dopo, Carlo Fermi si installerà a Medellin, capitale mondiale della cocaina, in Colombia).
Non se ne parla”, gli risposi. Provarono inutilmente ad insistere i due compari.

Alla fine si rassegnarono: saremmo andati con Enrico e Pier ad accompagnare Max.

Eravamo nella piazza di Chacaito, stavo scrivendo l’email del Pier sul cellulare, ad un certo punto notai il negretto che guardando verso di noi, saltò giù dal muretto dov’era seduto insieme ad altri. Non ci diedi il giusto peso e quelli presero a seguirci. A un certo punto, poco prima di uscire dalla piazza, parte di quella teppa ci superò, prendendo diverse direzioni.
Neanche il tempo di raccapezzarmi e pensare: “ Ma che storia è questa?...”, che venni colpito alla nuca. Che botta!

L’ultima scena che vidi prima di perdere i sensi fu Enrico De Simone: si girava come uno che già conosca il copione e con la sua nota espressione sulla faccia abbassa la testa, come a dire: “Ben ti sta!”. E molto casualmente a lui nessuno lo toccò.
Quando mi ripresi avevo il braccio del negretto che mi stringeva al collo. Il tipo era più basso di me, ma aveva un avambraccio di tutto rispetto e si teneva ben piantato al suolo. Ebbi la mia brava reazione e provai a scrollarmi da dosso quell’animale. Gli afferrai il braccio con entrambe le mani, tirai in avanti verso il basso e gridai come un animale. Ecco, due animali.

Ero fuori forma, e il negretto non fece il volo che avrebbe dovuto fare, ma dovette muoversi in avanti con passi veloci per non cadere. Aveva le scarpe lucide di pelle con la suola in cuoio che battendo sulle pietre della piazza, produssero uno scalpiccio piuttosto acuto. La scena aveva del comico.
Si fermò di fronte a me a tre metri circa. Ci fronteggiavamo io e il negretto e il tipo fece il gesto di mettere le mani dietro la cintura per prendere il coltello.
A quel punto scappai, senza molta convinzione, mi pareva di andare al rallentatore. In quel momento uno di quei figli di troia mi lanciò una bottiglia di birra che si fracassò sulla coscia in prossimità del mio ginocchio sinistro.
Ritornai nella piazza e mi fermai. Avevo ancora il cellulare nella mano sinistra. E i miei compagni?

Un attimo dopo vidi un tipo ridicolo che correva a slalom. Era Enrico De Simone.

Non si perse d’animo il periodista di destra, quel finto chavista subito prese ad aggredirmi verbalmente: era colpa mia se ci avevano aggredito; camminavo col cellulare in mano. “E guarda lì che ti sei fatto!

Si sentì uno sparo e dopo si vide la teppaglia scappare nella nostra direzione. Ritornammo al ristorante Nonna bella. Enrico chiamò la polizia. Io mi feci dare del ghiaccio per l’ematoma della bottigliata.
La polizia era già lì. Una pattuglia in moto aveva sentito il mio grido. Poi aveva incrociato Pier che gli aveva indicato il luogo dell’aggressione. Avevano sparato in aria per disperderli. Non avevano neanche tentato, che so, di acciuffarne qualcuno.

Prendemmo un taxi per tornare a casa. Passando davanti ad una pensilina degli autobus c’erano dei ragazzi. Appartenenti a quella teppa, ci avrei scommesso. Ero ancora dell’idea che andassero acciuffati ma non lo dissi a Enrico, a che serviva. 
Avevo attraversato quella piazza di Chacaito un'infinità di volte, spesso di notte, spesso da solo e non mi era mai accaduto neanche l'accenno di una rapina. Posso affermarlo con certezza: meglio solo, che male accompagnato...

A casa continuai a tenere il ghiaccio sull’ematoma e mi fumai una sigaretta.

Il giorno dopo, il 30 aprile del 2006, Enrico De Simone mi inviò questo messaggio: Hola guerrero, todo bien? Il grande "amico" Enrico De Simone, che oggi scrive per il giornale on line di un colonnello, Gaetano Quagliariello, del partito piduista.

Quando ci rivedemmo, Pier non ci poteva credere: “Ti hanno aggredito in due e li hai messi fuori gioco...”. Non ricordavo che erano in due, però ripensandoci mi tornò in mente, il secondo l’avevo colpito col dorso della mano sinistra al volto. Era stata la mia reazione prima di perdere i sensi.

Più di una persona mi dirà in seguito che ho fatto male a reagire, che così rischiavo la vita e cose del genere... Sono certo che avrei rischiato di più se non avessi reagito. Erano mal intenzionati dal  primo momento, almeno nei miei confronti. A Enrico, infatti, non lo avevano neanche sfiorato. Il Pier era riuscito a divincolarsi  Max si era ritrovato a terra mentre quelli gli frugavano nelle tasche.

Su una cosa concordammo e fu abbastanza scioccante: erano tutti ben vestiti. Una élite di marioli, del tipo che lavorano su commissione. Non a caso.

Avevo da poco denunciato all’autorità competente quegli infami delinquenti in grisaglia dell’associazione Agustin Codazzi, la scuola presso cui avevo lavorato a Caracas. E meno male, perché ho potuto mettere un punto fermo nei confronti di quella gente, e del regime che li protegge e che un domani, grazie ad apparati deviati dello Stato, avrebbe potuto avallare altre menzogne, più o meno come hanno provato a fare senza successo quegli infami della cricca Codazzi al Tribunale di Caracas.

domenica 19 gennaio 2014

La ragazza di Piero Armenti e l'appartamento di M | "Los hermanitos" a Sabana Grande

Nel gennaio del 2006, la ragazza di Piero Armenti andò a vivere da M. Il governo Chavez, infatti, stava ristrutturando interi barrios, i quartieri popolari conosciuti in Venezuela come rancho. In quel periodo toccava al quartiere del 23 Jenero, dove si trovava la casa dei genitori della tipa. Lei non aveva amiche che la ospitassero in quel periodo.
 

Un aspetto curioso di questa ragazza venezuelana era che, pur vivendo con i suoi genitori, trascorreva lunghi periodi senza rincasare. La ragazza di Piero Armenti, questa nomade, era ospite fissa delle sue amiche. Per questo motivo si spostava spesso con uno zaino, tipo quelli da scuola, in cui teneva tutto l'indispensabile.
Tutta la vita in uno zaino, o almeno, buona parte.

In Venezuela è facile vivere con pochi indumenti perché il clima è caldo. Il primo anno che ho vissuto a Caracas (che è comunque a quota 1000 m) avevo portato come capo più caldo, una felpa. Ma l'ho utilizzata poche volte, perché, anche alle 6 del mattino, quando andavo a scuola, mi faceva sudare.
Tornando alla ragazza di Piero Armenti, passava di casa in casa, ma ogni tanto tornava dai suoi familiari. Nel gennaio 2005 si era trasferita temporaneamente da M, cosicché una sera vennero a farle visita los hermanitos.

(Io non ero presente dunque questo racconto è la riproduzione di quanto riferito da M)

In quei giorni, per non meglio precisati motivi, la ragazza di Piero Armenti e Piero Armenti, non si stavano frequentando. In gergo tecnico si dice che erano in freddo
Quando vennero a farle visita los hermanitos, lei pensò bene di fargli un dispetto. 
Con gli hermanitos, infatti, arrivava anche la caña (gli alcolici), per lo più robaccia di inifimo livello e, di conseguenza, l'allegria... La ragazza di Piero Armenti era una Bukowski del gentil sesso: con la bottiglia ci andava giù pesante. 

Quando la serata, tra una battuta, una risata e una bevuta, era bella e avviata, la ragazza di Piero Armenti chiese se c'era qualcuno intenzionato a frustarla. Un hermanito si offrì volontario. Lei cercò fra le sue cose e ne tirò fuori un frustino. Lo passò all'hermanito. Tirò giù i pantaloni, si appoggiò al muro e l'hermanito prese a frustarla.
La ragazza di Piero Armenti prese a gridare che le piaceva essere trattata così, le piaceva fare il sadomaso e sconcezze simili...
 

La ragazza di Piero Armenti e alcuni hermanitos

Ad un certo punto un Piero Armenti spazientito dovette battere contro il muro per avere un po' di silenzio... ed è risaputo quanto gli fosse necessario un certo silenzio per concentrarsi al suo lavoro d'intellettuale. La tipa con cui era in freddo gli rispose per le rime, senza mai nominarlo, tanto che alcuni hermanitos cominciarono a chiederle cosa stesse accadendo.
 
Non so a che ora fossero andati a dormire, e poi come, dato che erano in 15 se non più e c'era un solo letto matrimoniale nel monolocale di M. 
Di fatto M era l'unica che all'indomani doveva alzarsi presto: alle 7 bisognava essere a scuola. Pardòn, alle 6 e 55 (cinque minuti prima e non cinque minuti dopo...)
Ma, quando il giorno seguente mi raccontò delle trasformazioni della ragazza di Piero Armenti, che ai miei occhi era una tipa piuttosto riservata, mi piegai in due dal ridere.

domenica 27 ottobre 2013

# L'articolo I # | Carlo Fermi, Max Mauro, Enrico De Simone: La Voce d'Italia, Caracas, giornale fascista con sinistre velleità | Anna Grazia Greco, la fuorilegge

Quando Max Mauro, giornalista de La Voce d'Italia, venne a Caracas nella primavera del 2006, si era messo in testa di scrivere un articolo sulla mia produzione pittorica. Io non ero d'accordo. Per me un articolo era sensato nel caso di una mostra. Altrimenti mi sembrava una cosa a metà. Enrico De Simone concordava con la mia scelta: anche lui aveva preso a cuore le sorti della mia carriera di artista plastico. Al punto che quando ci fu la proroga del Premio Italia, edizione 2006, cui non avevo aderito, Enrico De Simone si sentì in dovere di mettersi nelle orecchie affinché partecipassi anche a quelle selezioni. Dall'idea che mi ero fatto di quel premio, gestito dalla fuorilegge Anna Grazia Greco, era solo tempo perso, non valeva la pena. Ma quando Enrico De Simone, giornalista de La Voce d'Italia, mi disse di riprovare perché era comunque una chance, allora ritentai. A questo servono gli amici. 
Anche se dell'amico in questione mi è rimasta stampata l'espressione di quando gli comunicai che ero stato scartato. Enrico De Simone piegò la testa senza guardarmi, come se avesse detto: "Ben ti sta!". L'amico De Simone, finto chavista e chissà quant'altro... Di certo finto amico.

Enrico De Simone, finto chavista

Tornando a Max Mauro non era del mio stesso avviso e tanto fu soddisfatto quando accettai l'intervista. Una volta avuto l'ok, aveva bisogno di vedere e fotografare i quadri. Concordammo un incontro, dopodiché mi richiamò per aggiungere che sarebbero venuti anche Enrico De Simone e Carlo Fermi, in quanto interessati al mio appartamento: volevano vederlo. 

Quando si presentarono, avevano dato appuntamento a casa mia ad un loro conoscente che tornava da un viaggio fuori Caracas. Dunque ad un certo punto scesi, lasciando a casa Carlo Fermi, Enrico e Max, andai ad attendere il taxi.

Carlo Fermi, imprenditore italiano in Colombia

Il taxi arrivò nel modo più spettacolare e chiassoso possibile. Un vecchio macchinone americano (comune in Venezuela) con un signore di colore che, visibilmente brillo e con una bottiglia in mano per attestarlo, sedeva sul cofano. Quel signore si era gentilmente offerto di indicare la strada e la indicava letteralmente. Nel taxi, oltre all'autista e all'amico degli amici, c'era anche una coppia di stranieri, pare olandesi, che avevano condiviso parte del viaggio con il conoscente dei periodisti

Al momento di rientrare nella villa, il navigatore del taxi si fece avanti per bussare a denaro. Mandai dentro l'ospite e parlai a quattr'occhi con quel signore brillo. Lo ringraziai, innanzitutto, per il suo operato, ma non avrebbe avuto niente. Il signore mi comunicò di essere armato di pistola. Gli risposi che avevo anch'io una pistola. Il finto ubriaco parve soddisfatto. Gli olandesi sembravano molto divertiti. Il tipo risalì sul cofano e partirono così com'erano arrivati, scomparendo chiassosamente dalla mia vista.

Quando salii si sentirono esplosioni di fuochi d'artificio. Qualcuno alla Florida stava festeggiando... Tess, il cane della proprietaria, si andò a nascondere spaventata in un angolo, proprio dove tenevo il portatile (lo stesso da cui sto scrivendo), che per poco non cadde a terra. Lo prese quasi al volo il nuovo arrivato che, devo ammetterlo, era uno a posto.
Mostrai a Max Mauro i quadri. Lui scattò tre foto per l'articolo di giornale. Poi uscimmo.

giovedì 10 ottobre 2013

Enrico Mattei, fondatore dell'Eni e il sogno italiano; di Indro Montanelli

In questi ultimi giorni sono usciti due libri su Enrico Mattei, il fondatore dell'ENI. Uno è un «giallo» che pretende fornire le fila dell'attenta­to di cui egli sarebbe rimasto vittima, e non val la pena parlarne: non perché l'ipotesi sia da scartare a priori, ma perché gli autori non rie­scono a basarla che su congetture e induzioni scopertamente romanzate all'insegna del sensa­zionale. L'altro, no: è un profilo serio e pene­trantissimo, scritto da un inglese che a Mattei fu molto vicino in qualità di consulente: Paul H. Frankel. S'intitola Petrolio e potere («La Nuova Italia» Ed., 175 pagg., L. 1000). E non è soltan­to una biografia; è anche un saggio, asciutto chiarissimo, come solo sanno scriveme gl'inglesi, su tutto il problema delle fonti d'energia. D'altra parte, solo così inquadrato si può capire e va­lutare Mattei. E di capirlo e valutarlo, è ormai tempo.
L'uomo non aveva del resto nulla d'insondabile e misterioso. Come tutti i grandi caratteri, Mattei era un carattere semplice, perfino rozzo.
La cosa che più mi colpì, nell'unico personale contatto ch'ebbi con lui una sera a cena, fu l'in­tensità della sua concentrazione. Parlò di una cosa sola, sempre di quella: ogni volta che cercavo di spostare il discorso su altri fatti e interessi, il suo volto si chiudeva e assumeva l'espressione del sordo.
Frankel dice che, sebbene non avesse mai avu­to nulla a che fare col fascismo, Mattei ne aveva respirato l'aria, come del resto tutti gli uomini della sua generazione. L'idea di un'Italia neglet­ta e defraudata dei suoi diritti a un «posto al so­le» in lui era diventata convinzione profonda forse perché il posto al sole aveva dovuto guadagnarselo egli stesso, figlio di un povero carabinie­re meridionale costretto a lavorare di gomiti per inserirsi nel mondo degli affari lombardo.
Nulla di straordinario in questa vicenda. Mila­no è piena d'immigrati che hanno battuto la stes­sa strada e incontrato le medesime difficoltà; ma che, una volta arrivati, se ne sono gettati dietro le spalle il ricordo. Mattei, no. Anche dopo che vi ebbe raggiunto una posizione di tutto rispetto, per lui Milano rimase sempre «la plutocrazia». Non era invidia: e lo dimostra il fatto che Mattei non fece mai nulla per esservi accolto, anche quando avrebbe potuto farlo da padrone. Mattei non ambì mai agli status symbol della grande borghesia imprenditoriale né mai chiese l'ammis­sione al club. Vedeva veramente in questa categoria l'oppressore privilegiato. Era convinto che in Italia i poveri fossero poveri perché i ricchi ­erano ricchi. E fu per questo che esercitò tanta suggestione anche fuori d'Italia. Quando Mattei diceva ai paesi sottosviluppati che il loro sot­tosviluppo dipendeva dalla rapacità degli sfrut­tatori, non lo diceva soltanto per fare i propri affari. Ci credeva. In lui c'era una componente di messianismo populista. Aveva degli uomini una concezione manichea: di qua i deboli e buo­ni, di là i potenti e cattivi. Ricordo una sua inter­vista in televisione in cui egli parlava dell'ENI come di un disarmato gattino perso nel bosco tra belve rapaci. La menzogna era smaccata e mi fe­ce trasalire d'indignazione: l'ENI in quel mo­mento aveva già zanne e artigli da tigre. Eppure, dopo capii che Mattei era in buona fede e che proprio questa era la sua forza: per diventar il vindice di un sopruso, aveva bisogno di sentirsene la vittima.
Quanto ci sia di favoloso e leggendario in ciò che i suoi agiografi spacciano per biografico, non conta. Conta solo il' fatto ch'egli abbia ispirato favole e leggende. Forse per esempio non è del tutto vero che il suo impero nacque da un gesto di disobbedienza quando, nominato dal governo commissario dell'Azienda Generale Petroli (AGIP) col compito di liquidarla, vi si rifiutò con un'insolente lettera di sfida. Ma è del tutto vero che in quel momento egli non aveva la minima idea di ciò che stava facendo e dove sarebbe an­dato a parare. 

Sogno, elaborazione digitale da un disegno del 2004
Frankel dice che subito dopo la Liberazione, Mattei non aveva affatto deciso su che strada mettersi, ma che caso mai propendeva più per la politica che per gli affari. È probabile. Si era fatto un bel nome nella Resistenza di cui era sta­to il Grande Elemosiniere, era strettamente lega­to ai suoi più prestigiosi capi, e aveva un vasto seguito fra i partigiani. Inoltre, per gli affari, gli mancava il maggiore propellente: la sete di de­naro. Mattei era più ricco prima di creare la sua azienda che durante e dopo. Egli amava solo il potere, e l'amore del potere esclude tutti gli altri.
Ma probabilmente si era già accorto che la politica in Italia non conduce al potere. Conduce solo alla politica, per la quale a lui mancavano non solo le qualità, ma anche i difetti che con­tano ancora di più: era un pessimo oratore e credeva in ciò che faceva con una convinzione e ostinazione che lo rendevano inaccessibile a quel­l'arte del compromesso, di cui la politica ormai non fa più il mezzo, ma il fine. Tuttavia la sua scelta fu solo di strumento, non di obbiettivo. Preferì il petrolio al Parlamento perché pensò che fosse più facile dominare il Parlamento col petrolio che il petrolio col Parlamento.
Del petrolio sapeva ben poco, allora. Sapeva soltanto che le nostre forniture dipendevano da quelle grandi compagnie internazionali in cui egli vedeva la più perfetta e abominevole incarna­zione della «plutocrazia». Frankel dice che non ci fu mai verso di convincerlo ch'esse non forma­vano un vero e proprio «cartello», come lui spregiosamente lo chiamava, cioè un monopolio, e che i loro profitti non erano poi così esosi, come lui valutava. Mattei doveva crederlo perché solo così poteva riuscire a farlo credere ai Paesi pro­duttori. Egli portava nelle sue menzogne una ca­rica di sincerità che le rendeva irresistibili.
Non conosco i capi delle compagnie petrolife­re. Penso che sul piano tecnico e manageriale debbano essere uomini agguerritissimi, rotti a qualunque astuzia, e con un pelo sullo stomaco alto così. Ma sul piano umano la loro ottusità deve toccare livelli da Himalaya, a giudicarne dal modo con cui hanno condotto la lotta contro l'ENI. Essi risero quando Mattei, alla vista delle prime gocce di petrolio portate alla superficie dalle sue sonde in Val Padana, annunciò con la voce rotta dall'emozione che l'Italia aveva trova­to nelle sue viscere la cassaforte di una ricchezza aperta a tutti. Avevano ragione in quanto la cas­saforte non conteneva che quelle poche gocce. Ma non capirono che in un Paese appena reduce dalle mortificazioni della disfatta, più che di pe­trolio, c'era bisogno di fiducia, e che quell'an­nunzio riecheggiante il solito «L'Italia farà da sé», ne ridava. Essi risero quando Mattei si mise a profondere miliardi per costruire le più belle , moderne e lussuose stazioni di servizio con la scritta «Supercortemaggiore, la potente benzina italiana». Avevano ragione perché quella ben­zina italiana era fornita dall'Anglo-lranian in­glese. Ma non capirono che queste ostentazioni affezionavano la pubblica opinione a un'illusione cui non avrebbe mai più rinunziato, dando così a Mattei la forza di tradurla in realtà. Essi credet­tero che Mattei fosse un venditore di tappeti. Sbagliavano. Era un venditore di sogni, merce molto più pericolosa, anche perché facilmente e­sportabile e non soggetta a dogana.

Sogno italiano, Caracas dicembre 2004 - Gianluca Salvati

Nessuno può dire se, nel momento in cui il suo aereo precipitò, egli fosse alla vigilia di una cla­morosa vittoria o di una irreparabile disfatta. Cioè potrebbe dirlo solo il suo successore Cefis, che si rifiuta di parlare. È noto che Cefis, prima stretto collaboratore di Mattei, se n'era poi al­lontanato - e, mi dicono, in malo modo - per dissensi sui criteri di gestione dell'azienda dove rientrò dopo la morte del fondatore. Eppure non ha mai pronunciato che parole di rispetto, quasi di venerazione, nei suoi confronti.
lo credo che Mattei abbia commesso molti sbagli, ma che proprio questi diano la misura dell'uomo. Chiunque altro ne sarebbe stato tra­volto. Lui no, perché era più grosso di essi, un personaggio ibseniano, cui è superfluo cercar di attribuire un'aureola di martire tessendo cattivi romanzi gialli sulla sua fine. Non ne ha bisogno.
I protagonisti, Indro Montanelli - 17 maggio 1970

Morì nel 1962, in un misterioso incidente aereo le cui cause rimasero oscure per moltissimi anni. In seguito a nuove evidenze, nel 2005 fu stabilita la natura dolosa dell'incidente; vennero infatti ritrovati segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull'anello e sull'orologio di Mattei.
tratto da Wikipedia

domenica 29 settembre 2013

In che mondo viviamo: Ong del caffé - L'amico di Carlo Fermi | Enrico De Simone & Piero Armenti

Una sera uscimmo col gruppo di conoscenti di M.
C'era Carlo Fermi e il suo amico, Alessandro, che stava rientrando in Italia. C'era il giovane giornalista Piero Armenti, più guardingo che mai. C'era l'altro giornalista della Voce d'Italia, il romano Enrico De Simone. Del gruppo faceva parte il nostro nuovo collega, un quasi parente di Anna Grazia Greco poi M ed altre persone.


Carlo Fermi, imprenditore italiano a Medellin


Carlo Fermi aveva cominciato da poco a lavorare all'ambasciata italiana. Il suo amico, invece, aveva lavorato per una non meglio precisata Ong che si occupava di caffé e affini. La sigla Ong sta per organizzazione non governativa. Una sigla che è tutto un programma e dovrebbe significare indipendenza rispetto alle politiche economiche delle multinazionali Usa. Una mission delle Ong, ad esempio, è il rispetto dei diritti umani, ma qui siamo ancora nel campo dei buoni propositi, perché nei fatti, l'azione delle Ong, altro non è che finta vigilanza e mutuo consenso alle politiche di rapina adottate da suddette multinazionali. 



Mondo statunitense (cortesemente prelevata dal blog Cosas De Los Gringos)



Va da sé che quel tipo di lavoro sia ammantato da una notevole dose ipocrisia e mistificazione. Per questo è l'ambiente adatto per individui doppi, per venduti e infami di vocazione. Un esempio per tutti, la finta conferenza stampa, seguita a vera espulsione, del finto attivista per i diritti umani, vero agitatore Cia (agit-prop Cia), José Miguel Vivanco, nel settembre del 2008 a Caracas. Notizia prontamente riportata dal periodista di destra, Enrico De Simone.

Ma a quei tempi, nei giorni in cui conobbi la ragazza di Piero Armenti nell'autunno del 2005, Enrico De Simone si faceva passare per chavista, ovvero per socialista tout court. Idem Piero Armenti, anch'egli si professava convinto chavista: lui e la rivoluzione bolivariana erano una cosa sola. Guai a parlar male di Chavez. 


Piero Armenti, quando era chavista - Caracas 2005

Difficile dire che i due giornalisti siano diventati di sinistra in Venezuela, per poi ritornare di destra una volta fuori dal paese. Mi sembra poco probabile, un po' come uno che si riscopra omosessuale a 50 anni... a meno che non abbia vissuto fino ad allora sulle nuvole.

Agustin Codazzi pintado a la Andy Warhol

Dicevo, la posizione dei due periodisti non si capiva, anche perché Caracas ha ospitato le dorate latitanze di diversi fascisti, basti pensare a Stefano Delle Chiaie.
Oppure, per rimanere all'attualità, si pensi all'ex politico DC, poi faccendiere della 'ndrangheta (legato a Marcello Dell'Utri) Aldo Micciché, che abitava proprio lì vicino a Plaza Altamira e, anche lui, come Piero Armenti, al Consolato Generale italiano di Caracas (reame della Anna Grazia Greco) era di casa...
In effetti è molto probabile che il sig. Aldo Micciché e Piero Armenti si siano incontrati e si conoscano: il Consolato Generale italiano di Caracas non è certo il Sambil, ma è soltanto una piccola palazzina di 2 piani. 

Questo inquadra bene dei fatti altrimenti incomprensibili:
  •  il comportamento fuorilegge di Anna Grazia Greco  e consociati, ovvero la Giunta Direttiva del Codazzi con a capo Guido Brigli 
  • l'ostentata negligenza della commissione ministeriale capitanata dal pagliaccio di Stato, Paolo Scartozzoni
Tornando alle convinte asserzioni bolivariane dei due periodisti, altrimenti di destra, io non avevo fedi da ostentare e restavo coerente al mio scetticismo di base, anzi, spesso in classe facevo la parodia del chavismo, ritenendolo puro folklore locale. E credo che se il paese fosse stato governato da quella tremenda dittatura che vedevano molti fascistelli - gente entrata in Venezuela strisciando e in seguito scappata con la coda in mezzo alle gambe - beh, se fosse stato così, immagino che io sarei durato il tempo di un giorno a Caracas. 
E invece sono andato e tornato più volte in Venezuela.  Sempre a testa alta.

La prima parte della serata, ovvero l'incontro con quelli che non conoscevo, era al Sambil. Piero Armenti era in fibrillazione, quella sera stava per presentarci la sua ragazza: una venezuelana niente male.
Dopo le presentazioni andammo in un sushi-bar perché i fighetti del gruppo erano abituati a trattarsi bene. Dopo esserci ingozzati di pesce crudo ci spostammo in un locale dove l'amico di Carlo Fermi, in procinto di lasciare il Venezuela, offrì da bere a tutti. 

Di Carlo Fermi c'era un articolo del gennaio 2009 sulla Voce d'Italia di Caracas, in cui spiegava perché si era trasferito a Caracas e parlava del suo amico, quello che ho conosciuto durante l'uscita dell'ottobre 2005. Curiosamente, dopo pochi anni, l'articolo in questione è rimasto nell'archivio del giornale (dove lavoravano Piero Armenti ed Enrico De Simone), ma è scomparso ogni riferimento a Carlo Fermi e al suo amico che lavorava nell'Ong del caffé. 
Per ritrovare il testo originale bisogna andare sul sito delle autrici (leggi articolo integrale).

Attualmente Carlo Fermi si è trasferito in Colombia, a Medellin, rinomato centro di produzione e smistamento della cocaina, Carlo Fermi però produce pasta alimentare.


martedì 22 gennaio 2013

"Franco Chirico, ritratto a la Jacques Chirac"

Alla mia personale del 1999 portai un quadro su Jacques Chirac. Il lavoro era tratto da una foto del presidente francese presa per strada. Lo scatto era piuttosto insolito, il soggetto era in cammino e procedeva trascinando un braccio, quello sinistro, come per inerzia, mentre il torso era proiettato in avanti. La posa suggeriva che il presidente andava di fretta ma non voleva scontentare il fotografo, o piuttosto, non voleva perdere l'occasione di dispensare una buona immagine di sé. Il gesto del braccio trascinato, a mezz'aria, lo riprendevo in un altro quadro della stessa esposizione, il discobolo. Ma, a parte questo particolare, i due soggetti erano costruiti in maniera completamente diversa. Per il Franco Chirico a la Jacques Chirac, mi ero attenuto alle indicazioni della foto senza troppe novità, con qualche libertà nel trattare la testa. Il discobolo, invece, era inventato fin dal disegno. 



Franco Chirico, ritratto a la Jacques Chirac - 1999


Alla mostra personale avevo invitato l'editore Franco Chirico, responsabile della comunità neocatecumenale presso la parrocchia del quartiere, ma Franco Chirico all'inaugurazione non si era visto. Quando mia madre gli aveva commentato l'esposizione, aveva aggiunto che "c'era anche il suo ritratto...", riferendosi al quadro Franco Chirico ritratto a la Jacques Chirac. L'affermazione non era esatta, ma dovetti ammettere che c'era un fondo di verità: volto e capelli arruffati erano più del Chirico che dello Chirac... Dopo essermi attenuto fedelmente alle informazioni della foto, infatti, avevo perso la pazienza e mi ero dato alla libera interpretazione del volto. A quadro terminato ne risultava il Chirico sul fisico dinoccolato dello Chirac.
Che connessioni c'erano tra il presidente francese (di destra) e il responsabile della comunità dei neo-catecumeni dei miei genitori, Franco Chirico? 
Boh? La questione non mi riguardava più di tanto... A quei tempi non mi ponevo troppe domande, limitandomi a scandagliare gli imperscrutabili disegni della realtà con gli affilati strumenti dell'arte. 
Franco Chirico è anche il principale editore del movimento neocatecumenale. Franco Chirico conosce personalmente Kiko Arguello, leader e santino ante litteram di quella setta cattolica.
Comunque, nonostante il quasi-ritratto a la Chirac, Franco Chirico non si fece vivo, in compenso, vennero a vedere l'esposizione alcuni amici di suo figlio, Fernando Maria Chirico.


"La pittura è soltanto un mezzo che mi permette di portare alla luce un pensiero grazie all'utilizzo di elementi presi al mondo visibile"
René Magritte

gianluca salvati

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Gianluca Salvati - Lotta di cani

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